I morti di Calais

Una frontiera invisibile può uccidere? A Calais, la risposta è sì. Dal 2002 al 2015 i morti nella piccola città francese e nei dintorni sarebbero più di cento: il condizionale è d’obbligo perché non esiste una contabilità precisa.

di Ilaria Sesana

Il 2015 si è appena concluso con un bilancio pesante: 24 morti. Donne e sopratuttto uomini, quasi tutti giovani. Alcuni poco più che bambini.
Il sito “Calais migrant solidarity” monitora da anni la situazione e tiene questa macabra contabilità. L’ultimo decesso, porta la data del 28 dicembre scorso: un giovane iraniano che sarebbe salito a bordo di un camion, assieme ad altre due persone, per attraversare la Manica. Ma qualcosa preoccupa i tre profughi, il pesante mezzo sembra andare nella direzione sbagliata:  così l’uomo sporge la testa da un’apertura nel telone del camion. L’impatto con il pilone di un ponte lo uccide sul posto.

Ventiquattro morti, una media di due al mese. “Ci siamo abituati? È diventato accettabile che i sopravvissuti alla traversata del Sahara e del Mediterraneo, dei monti del Kurdistan e dei Balcani vengano a morire sulle nostre rive, nel cuore dell’Europa?” chiede il blog “Passeurs l’hospitalité”.

Si muore così a Calais. Si muore falciati dalle auto lanciate a tutta velocità lungo il raccordo autostradale che abbraccia lo scalo portuale. Come è successo al giovane Yousuf, sudanese, lo scorso 3 dicembre. Si muore schiacciati da un carico di bancali che si ribalta all’improvviso all’interno di un camion: così ha perso la vita Omar, iracheno. Si muore accoltellati durante una rissa o dagli smuggler.
Si muore folgorati mentre si tenta di attraversare l’Eurotunnel, come è successo ad Eyas, 23enne siriano. Si muore di freddo, congelati nelle acque del Canale della Manica nel tentativo di raggiungere a nuoto uno dei ferry che fanno la spola tra Calais e Dover. È successo a Hicham, 22enne marocchino. Chi riesce a sopravvivere al freddo, ma non alla fatica, muore affogato, come è successo al 17enne eritreo Houmed lo scorso 19 luglio.
La più giovane vittima di questa strana frontiera aveva solo poche ore di vita: Samir è nato prematuro (22 settimane appena) dopo che la sua mamma, una ragazza eritrea di 22 anni, era caduta da un camion il 4 luglio scorso. Il trauma e il parto prematuro hanno portato alla morte del piccolo.

Gli “assalti” dei profughi all’Eurotunnel, i conseguenti blocchi alla circolazione dei treni sotto la Manica hanno acceso – per qualche settimana – l’attenzione dei principali media su quello che stava avvenendo a Calais. Dove ancora oggi, secondo le stime degli attivisti presenti, vivrebbero circa 6mila persone, tra cui molte donne, bambini e minori non accompagnati. E dove si continua a morire nell’indifferenza generale.

I principali quotidiani locali della regione Pas-de-Calais solitamente dedicano a questi episodi brevi trafiletti nelle pagine di cronaca. I morti, quando sono poveri e scomodi, non fanno notizia. Le loro storie raramente bucano lo schermo dell’indifferenza. Come è successo a Nawal, giovane mamma siriana, che la sera del 14 ottobre è stata investita e uccisa da un taxi mentre con un gruppo di connazionali cercava di salire di nascosto sui camion diretti Oltremanica. Mohamed, 9 anni, ha assistito impotente alla morte della madre. La fotografa Shannon Jensen che ha documentato l’incidente per Le Monde, racconta che il bambino ha deciso di abbandonare il sogno di raggiungere il Regno Unito. È tornato al confine tra la Siria e la Giordania dove vive il padre.