di Francesca Rolandi
Il senso comune attribuisce il ruolo esclusivo di paese di emigrazione all’Italia, che sarebbe diventata solo lentamente conscia di essere un paese di immigrazione nei primi anni ’90. Tuttavia, ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale un flusso di stranieri entrò in Italia, punto di ingresso nel blocco occidentale per gli europei del sud est.
Se nei primi anni si trattava di oppositori dei recentemente instaurati regimi comunisti, ex collaborazionisti o profughi in fuga da regolamenti dei conti, con gli anni si ampliarono le categorie di cittadini dei paesi socialisti che cercavano una vita migliore o sfuggivano da persecuzioni politiche, emigrando clandestinamente, scappando, dai paesi del socialismo reale.
L’Italia per diversi decenni agì come paese di transito per cittadini di diversi paesi est europei, che qui facevano richiesta di asilo politico e venivano ricollocati dalle organizzazioni che gestivano le migrazioni internazionali o ripartivano clandestinamente inseguendo il grande sogno del ricco nord.
Il progetto di Emanuela Gasbarroni, giornalista e documentarista, “Fuga per la libertà”, racconta un frammento chiave di questa storia che ruota intorno al campo per profughi stranieri Rossi Longhi di Latina dove, dal 1957 al 1989, transitarono i profughi stranieri prima di imbarcarsi per le destinazioni oltre-oceano dei paesi che accettavano quote di rifugiati o migranti economici.
Il campo aprì nel 1957, all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria, quando anche l’Italia fu investita dal flusso di profughi ungheresi in fuga, e durante tutta la sua esistenza, le sue sorti furono legate a doppio agli avvenimenti del blocco sovietico, fino alla caduta del muro di Berlino.
Il progetto racconta di tempi che ora sembrano lontani e di una gestione dell’emergenza umanitaria che, per quanto fosse strumentalizzata dalle esigenze politiche della guerra fredda, era infinitamente più efficace di quella attuale.
Dal campo passarono differenti categorie di persone, intellettuali e prostitute, ingegneri e operai, con alle spalle le parabole di vita più disparate. “In fuga verso la libertà” ne segue alcune, spaziando tra Europa e Nord America.
Tra i richiedenti asilo vi fu anche anche il regista russo Andrej Tarkovskij, la cui defezione suscitò molto scalpore in Unione Sovietica, dove non fece più ritorno, per morire in Italia poco dopo.
La posizione del campo, situato in una ex caserma dove oggi si trova l’università, fece sì che si verificasse un’interazione tra la popolazione locale e i profughi, l’Altro che l’Italia dell’epoca non era abituata a conoscere.
L’autrice, originaria di Latina, ha familiarizzato con l’idea del campo sin dall’infanzia. “I miei genitori diventarono amici di alcuni cubani ospiti del campo, che avevano aiutato Fidel a fare la rivoluzione e successivamente erano scappati. Successivamente conobbero una coppia cecoslovacca.
I profughi erano una presenza in città, erano riconoscibili, avevano un’apparenza antiquata. Loro potevano uscire mentre gli italiani non potevano entrare nel campo” racconta Emanuela Gasbarroni a Q Code Magazine.
“Non c’era aperta ostilità verso i profughi ma diffidenza e a volte paura. A ciò contribuivano anche i giornali che li descrivevano i profughi come delinquenti o criminali, mentre il campo ospitò un’umanità varia, tra cui anche molti artisti”.
Il progetto “Fuga per la libertà” può essere sostenuto fino al 7 febbraio attraverso una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso (https://www.produzionidalbasso.com/project/fuga-per-la-liberta-campo-profughi-di-latina/)