di Juri Bomparola
Il web 2.0 ha catapultato il genere umano in una dimensione parallela, teoria postulata nell’ultimo secolo da diverse menti geniali. Menti sovrumane, affermerei.
Perché nascere Einstein, quando sarebbe bastato essere ingegnere informatico?
Non ditelo ad Albert ma la soluzione del dilemma risiede nello spostare il tema da un piano fisico a un altro virtuale.
Li vedo gli atomi di Einstein ancora fluttuanti nell’etere che imprecano alle mie spalle. Sbatterebbero i pugni sul tavolo se avessero mani e un tavolo così piccolo disponibile.
Penso a Stephen Hawking che mi mostrerebbe il dito medio, se potesse.
Sento una voce robotica che, comunque sia, mi sta mandando a quel paese.
Finisce l’effetto dell’ultima doppio malto e ritorno in me, trovandomi a fissare lo schermo del computer. Sto guardando alcune immagini su Facebook; l’indice della mia mano destra a ogni metà di secondo preme sulla tastiera la freccetta che punta a dritta.
Sto cercando inconsciamente la schermata perfetta: quella che mostra non come sono, e nemmeno come vorrei essere. Quel fermo immagine deve mostrare come vorrei essere visto.
Guardo miriadi di fotografie digitali che mi hanno immortalato nei miei ultimi concerti. A volte da solo, a volte con i miei soci.
Nella maggior parte dei casi mi soffermo sulle foto dei miei compagni, trovandomi a constatare quanto loro caschino sempre bene in queste trappole che catturano un infinitesimo attimo di vita.
Se uno scienziato sommasse tutti quei miei attimi di vita catturati ed elevasse il risultato a paradigma, senza dubbio evincerebbe che finora ho passato una vita del menga.
Guardo Giorgio, il batterista della band. Madre Natura è senza dubbio stata generosa con lui: un bell’ometto che sembra possedere il dono stregonesco di essere immortalato al momento giusto. Le sue foto sono sempre perfette, tranne quando viene sorpreso mentre è impegnato in qualche fill.
In quei casi è un kraken in miniatura che muove i tentacoli vorticosamente. L’immagine risulta sfocata, ma appare comunque come il risultato di una precisa scelta artistica: magia. A me non capita mai.
Guardo Vanny, il chitarrista. Lui è piccino e sempre carico di energia, il che traspare in ogni fermo-immagine. Assume le sue espressioni naturali, e funzionano tutte. Sembra di vedere Derek Zoolander in passerella. Anche questo non mi capita mai.
Guardo Davide, il cantante. Il microfono in una mano o nell’altra, le sue pose sono da vera rockstar. Ha il faccino delicato e il braccio non occupato è spesso ritratto teso verso l’alto, con l’indice che punta perentorio il cielo. E’ un mago tolkeniano in procinto di evocare un incanto, e incanta. Io no.
Guardo Alex, il tastierista. Dietro alle sue tastiere e alle macchine digitali ha sempre l’immagine giusta. A volte viene ripreso, ma mai sorpreso, sul proscenio. Con la sua tastiera midi davanti al pubblico, come parte integrante della front-line ha sempre il sorriso giusto da regalare all’obiettivo. L’obiettivo ringrazia.
Le mie fotografie ringraziano molto meno. E ancor meno mi graziano.
Sono sicuro che questa fisima è comune anche a tutti gli altri, ma in fondo sto parlando della mia, personalissima fissazione.
Mi osservo dall’esterno: il web 2.0 mi permette di vedere me stesso in altre dimensioni, come accade nei racconti, millantatori o meno, di chi dice di essere tornato dalla morte dopo il coma.
Eccomi lì, con la faccia da ragazzino eccitato in età puberale, mentre cerco di assumere un’espressione sensuale.
Oppure con un occhio chiuso e l’altro mezzo aperto. O ancora, con la stessa faccia sveglia di Berlusconi mentre assiste al giuramento del Presidente della Repubblica.
Noto in tutte queste immagini un particolare. Spesso imbraccio il mio basso come un fucile. Non con la delicatezza che si riserva alla donna amata, non con la passione segreta che induceva Paolo a stringere a sé Francesca.
Lo tratto come un complice di conquiste terrene, come un fratello in armi, come un simbolico scettro che sia un monito per tutti i presenti.
Non penso a Steve Harris: lui lo fa da quarant’anni. Non mi ha mai sfiorato il pensiero di emularlo. Il gesto che compio mi viene naturale.
Penso piuttosto all’anno passato sotto servizio di leva. Un anno in Sud Tirolo a servire la cosiddetta Patria, sognando di fare il musicista.
Ogni FAL, ogni Beretta SC 70/90, ogni MG imbracciato erano, nella mia fantasia, un basso.
Quel palco, ora, è una linea di confine conquistata dopo nottate in trincea.
Il basso tra le cosce, la paletta rivolta verso l’alto oppure verso il pubblico.
Sventagliate di note come proiettili calibro 7,65, mirate a conquistare anche solo un metro di terreno.
Note a volte sbagliate, ma chissenefrega: i tiratori scelti sono roba da Americani. I cecchini sono retaggio dell’Armata Russa o della Wehrmacht.
Noi siamo Italiani: non siamo perfetti, ma di cuore. Ci arrangiamo con il coraggio, il talento e lo spirito di adattamento.
Il Capitano Corelli suonava il mandolino, mentre i tedeschi se la ridevano pensando alla sua fucilazione.
Il Piave mormorò, ma noi gridiamo.
E’ una digressione blasfema, un paragone irrispettoso, me ne rendo conto.
Ma il mio sogno è passato anche da lì, e rappresenta la realtà più di ogni mio scimmiottare il bassista degli Iron Maiden davanti allo specchio.
Rifletto, astraendomi dal mio essere me stesso: probabilmente per ogni musicista che vive nel mio mondo, il proprio strumento è un’arma.
Un’arma di pace, ma pur sempre un’arma impropria. Capace di dividere le opinioni ma anche, si spera, di unirle.
Al termine di un dato numero di battaglie, il pubblico che ci segue è quello che ci ha scelto. Rispettando la legge impietosa delle nostre armi, ma anche abbracciando l’idea che i colpi inferti difendono.
Coloro che ci sostengono sono stati colpiti tanto dalle nostre note, quanto dal nostro modo di spararle.
Il palco è solo lo spazio ultimo dove ricevere le nostre medaglie.
Una volta scesi da quel palco con le decorazioni sul petto, dopo aver conquistato la nostra linea sull’Isonzo, dobbiamo difendere il confine. Scavando un’altra trincea, per tentare di andare oltre.
In questo periodo più che in quelli passati, il vivere di musica in Italia è una battaglia.
Ci sono soldati più giovani, poco esperti ma più attrezzati, e ci sono generali smemorati che si appropriano di conquiste senza remore, in virtù della ragion di Stato.
Alla luce della storia attuale, essere musicisti diventa vera e propria questione di sopravvivenza.
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Mia madre mi telefona, mentre chiudo Facebook.
Web 2.0 benedetto e maledetto insieme.
“Stai bene? Tua sorella mi ha fatto vedere le tue foto sul compiuter (lei lo scriverebbe proprio così): mi sembri un po’ sciupato!”
“Tranquilla mà, sto bene. Ho solo passato qualche nota pesante: sono una rockstar…!”
Immagine di copertina di Paolo “Paul” Chieregatti Martini
Juri Bomparola Musicista professionista dal 2001, lavora nel mondo delle cover-band e si dedica all’osservazione della gente, perché di persone ne incontra parecchie. Gira l’Italia con un basso tra le mani; suona canta e rappa. Dal 2004 fa parte degli OxxxA, storica cover-band milanese che più di vent’anni or sono ha aperto la strada a chi sognava di fare della musica dal vivo in Italia una professione aperta a tutti.
La rubrica “Mamma sono una rockstar!” La mamma vorrebbe un figlio medico, imprenditore o ingegnere. A volte capita che la mamma non comprenda che un musicista cura se stesso e gli altri con la musica, è imprenditore della propria band ed è pure ingegnere del suono. Lo spieghiamo in questo spazio dedicato a piccoli e grandi musicisti e alle loro mamme. Un viaggio non solo on the road ma anche e soprattutto between the roads. Il musicista suona, ma tra un concerto e l’altro pensa e vive. Ispirato da Ungaretti un bassista racconta i suoi piccoli conflitti quotidiani.