uscite durante l’anno appena concluso
di Juri Saitta
Con il grande successo commerciale del nuovo film di Checco Zalone Quo vado? e l’uscita in sala del bellissimo Carol di Todd Haynes il 2016 cinematografico è ormai ufficialmente iniziato. Ed è così il tempo di realizzare un breve bilancio dell’anno appena passato, forse privo di capolavori e titoli innovativi, ma comunque ricco di buoni film.
Se nel mio articolo sul 2014 ho descritto l’annata suddividendola per cinematografie e nazionalità, quest’anno cercherò invece di proseguire per aree tematiche e di genere. Un metodo certamente parziale e arbitrario, ma forse più personale e interessante, comunque utile per orientarsi in un 2015 più ricco delle apparenze. In tale direzione, ho diviso l’annata in quattro “macro aree”: il cinema storico-politico; il cinema intimista sul lutto e sui passaggi della vita; il cinema sulla redenzione e la dimostrazione; infine, il cinema sull’arte e su se stesso.
Partiamo dal cinema politico, nel 2015 particolarmente ricco di titoli variegati e degni di nota, alcuni più espliciti nei loro contenuti, altri più sottesi e allegorici.
Tra i primi troviamo sicuramente Taxi Teheran di Jafar Panahi, Leviathan di Andrey Zvyagintsev e Francofonia di Aleksandr Sokurov.
La prima è un’opera che il regista iraniano Jafar Panahi ha girato in clandestinità (all’autore è vietato realizzare film nel suo Paese) e quindi con pochissimi mezzi: una piccola videocamera e un taxi da egli stesso guidato. E, infatti, l’opera è composta dai dialoghi del cineasta (che qui si finge tassista) con i diversi passeggeri, reali o recitati, che si siedono sulla sua automobile: la nipote di dieci anni, il suo avvocato, un commerciante clandestino di dvd occidentali. Il risultato è una sorta di pamphlet politico non solo in quanto descrive le contraddizioni dell’Iran contemporaneo, ma anche e soprattutto perché per Panahi aver realizzato il film con le condizioni limitate e i rischi corsi è di per sé un atto politico, come dimostra per contraltare la sequenza della lettura delle rigide regole statali su come si deve realizzare un’opera cinematografica.
Un altro film ch riflette sulle contraddizioni del suo Paese arriva dalla Russia ed è Leviathan di Andrey Zvyagintsev. Qui il cineasta, attraverso la storia della lotta giuridica tra un cittadino e il suo sindaco, denuncia due poteri collusi e alleati: quello religioso e quello politico. E se quest’ultimo è mostrato al tempo stesso come arrogante e ridicolo (il primo cittadino è goffo e alcolizzato), quello religioso è rappresentato come più raffinato, forse più viscido ed efficace, incarnato da un inquietante vescovo ortodosso.
Ma dal punto di vista formale Leviathan è l’esatto opposto di Taxi Teheran.
Se il film di Panahi è “clandestino”, piccolo negli spazi e interamente giocato sul confine tra il reale e il fittizio, l’opera di Zvyagintsev unisce l’immensità dei paesaggi a una sceneggiatura molto costruita, ricca di dialoghi complessi e articolati, quasi teatrali.
Da citare in quest’area vi è anche Francofonia di Aleksandr Sokurov. Qui l’autore russo firma un film-saggio che unisce diversi formati e linguaggi cinematografici per concentrarsi sulla storia dell’occupazione nazista del Louvre e su come questo sia stato salvato dall’alleanza tra il suo direttore e un generale tedesco. Un’opera che riflette in modo esteticamente originale e sperimentale non solo su una parte della storia europea, ma anche e soprattutto sull’Europa contemporanea, sul suo smarrimento e sulla sua necessità di essere unita e guidata dai suoi due Paesi più forti: la Germania e la Francia, appunto.
Più allegoriche e sottese nei loro contenuti risultano invece Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson, Bella e perduta di Pietro Marcello e The Lobster di Yorgos Lanthimos.
Pellicole molto diverse, ma ugualmente metaforiche: se la prima è una commedia divisa in tanti piccoli piani sequenza che, con umorismo grottesco e situazioni surreali, ritraggono un’umanità desolata e desolante, schiacciata dal proprio squallore e dall’oppressione delle classi dominanti, la seconda unisce fiaba e documentario per parlarci dello sfascio e dall’abbandono in cui versano lo Stato e la cultura in Italia.
Il terzo film è invece ambientato in un futuro prossimo in cui i single devono trovare un compagno entro 45 giorni se non vogliono essere trasformati in animali. A opporsi a tale società, vi è un gruppo di ribelli che intendono vietare i rapporti affettivi. Proprio attraverso questa storia di fantascienza distopica, il cineasta greco riflette in modo grottesco e inquietante su sistemi radicali e totalitari, che impongono leggi assurde e disumane, in quella che può anche essere una metafora sulla crisi economica e sociale del suo Paese, diviso tra i memorandum di Bruxelles e i neonazisti di Alba Dorata.
Altro film importantissimo sulla crisi è sicuramente Arabian Nights di Miguel Gomes, opera monumentale che tramite la struttura narrativa de Le mille e una notte racconta il Portogallo attuale unendo episodi surreali a momenti documentaristici. Un’opera fondamentale, ma che, vista la sua durata di quasi sette ore, probabilmente non verrà mai distribuita in Italia, se non nei circuiti festivalieri e strettamente d’essai.
Forse meno ricco, ma ugualmente significativo è stato il cinema intimista sul lutto e sulle fasi di passaggio, del quale vanno citati tre dei film più interessanti del 2015: l’animazione targata Pixar Inside Out di Pete Docter il nuovo Moretti Mia madre e l’horror australiano Babadook di Jennifer Kent.
In realtà, l’opera della Pixar non affronta lutti veri e propri, ma si concentra soprattutto sul passaggio dall’infanzia alla pubertà, con i suoi cambiamenti e le sue paure. Il cartoon si avventura dentro la psiche di una bambina e vede come protagoniste le cinque emozioni che la guidano: Rabbia, Paura, Disgusto, Gioia e Tristezza. Qui, non solo la Pixar crea un mondo al tempo stesso completamente nuovo e simile al nostro, non solo spiega in modo semplice e originale alcuni meccanismi della nostra mente, ma ci mette di fronte agli shock e ai traumi (ma anche alla necessità) della fine dell’infanzia, mostrandoci plasticamente come i suoi mondi si distruggono, le sue fantasie si dissolvono, le sue vecchie amicizie spariscono.
E anche se non è la prima volta che un film d’animazione narra una storia di formazione, è certamente notevole il modo con cui il lavoro della Pixar lo fa, da tutti i punti di vista: narrativo, formale, concettuale ed emozionale.
Di una perdita vera e propria tratta invece Mia madre: il film di Moretti è un’opera personale sulla preparazione al lutto in cui il regista proietta parte di se stesso sul personaggio di Margherita Buy, investendola delle sue ossessioni e, soprattutto, del suo attuale smarrimento esistenziale e politico. Ciò con una struttura narrativa che gioca su una doppia alternanza: tra dramma e commedia e tra sogno e realtà, seguendo così gli umori e il flusso di coscienza della protagonista.
E mentre il titolo italiano affronta la fase di preparazione a una perdita, Babadook tratta del lutto nel suo momento più doloroso. Attraverso la storia di una madre alle prese con la materializzazione delle paure del figlio e di se stessa, il film ci parla dell’impossibilità di superare completamente il proprio dolore e della necessità di saperci convivere. Questo in un horror talvolta terrificante e spesso inquietante, raffinato e cinefilo nello stile (vedi i riferimenti a Melies e Murnau), profondo e acuto nei contenuti.
Inside Out, Mia madre e Babadook: tre opere diverse per produzione, genere e racconto, ma che affrontano tutte importanti fasi di smarrimento, nel primo caso legate alla crescita, negli altri due riguardanti il lutto e la perdita.
Si trovano invece tra il personale e il pubblico tre delle opere statunitensi più riuscite di quest’anno: Foxcatcher – Una storia americana di Bennett Miller, Birdman di Alejandro González Iñárritu e Whiplash di Damien Chazelle, tutti titoli sul desiderio di dimostrare qualcosa a se stessi e d’incontrare l’approvazione del prossimo.
Lavori che approfondiscono la psicologia dei loro personaggi, ma che allo stesso tempo riflettono sui valori, i miti e i meccanismi del proprio Paese.
Se narrando di un giovane batterista jazz dalle smisurate ambizioni e del suo severissimo maestro, Chazelle approfondisce due individui che in modo diverso rispecchiano la mentalità americana del successo e delle miracolose capacità del singolo, Foxcatcher e Birdman raccontano in qualche modo due storie di (tentata) redenzione.
Nel primo i protagonisti sono l’erede di un’industria bellica appassionato di lotta greco-romana John du Pont e l’atleta Mark Shultz, due personaggi che vogliono riscattarsi da un lascito pesante: da una madre austera nel primo caso, da un fratello più bravo nello sport nel secondo. Da un lato, l’opera mostra i loro tormenti con uno stile classico e inquietante, mentre dall’altro riflette sui miti e sui falsi valori statunitensi, in quanto du Pont giustifica le proprie ossessioni appellandosi al patriottismo e all’eroismo dei soldati americani.
Birdman racconta invece di un’ex star di Hollywood famosa per un suo personaggio fumettistico che allestisce uno spettacolo a Broadway per dimostrare di essere anche un artista impegnato e profondo. Il film con ritmo vivace, un ottimo uso del suono e una certa dose d’ironia mostra i fantasmi psicologici dell’uomo e sbeffeggia le dinamiche del mondo dello spettacolo e dei media, soprattutto nell’era dei social network.
Tra i film che invece ragionano anche sul cinema, sui generi e, più in generale, sull’arte vanno nuovamente citati Birdman e Francofonia, non solo perché raccontano di spettacoli e di musei, ma anche in quanto sperimentano con il linguaggio: il primo attraverso un (finto) piano sequenza, il secondo perché usa, unisce e ibrida diversi formati cinematografici.
E insieme a questi titoli, vanno nominati anche il biografico Turner di Mike Leigh, la commedia Tutto può accadere a Broadway di Peter Bogdanovich e l’action movie Mad Max: Fury Road di George Miller.
Pur raccontando la vita del pittore inglese, Turner risulta in realtà ben più del classico biopic, in quanto descrive soprattutto lo stile artistico del protagonista, in particolare la sua attenzione per la luce. E inoltre, l’opera accenna brevemente alla nascita della fotografia e al graduale arrivo dell’astrattismo nel mondo della pittura. Ci troviamo dunque di fronte a una pellicola che non si limita a raccontare un personaggio, ma che riflette soprattutto sull’arte e, indirettamente, sul cinema.
E mentre in Turner la Settima Arte è soprattutto un sottotesto, in Tutto può accadere a Broadway è il fulcro dell’opera, in quanto Bogdanovich realizza un omaggio alla commedia americana in tutte le sue forme e i suoi registri, passando da Allen a Lubitsch, da Wilder a Edwards. Il tutto con grande senso del ritmo e dell’umorismo e, soprattutto, restando sostanzialmente fedele ai canoni e agli schemi del genere di riferimento, soprattutto nel suo lato screwball. Dunque, un lavoro assolutamente cinefilo, ma mai soltanto citazionista, che riesce a essere contemporaneamente classico e originale, proprio come accade nei lavori migliori del regista statunitense.
Mad Max: Fury Road è invece un action movie apprezzabile soprattutto, e forse quasi esclusivamente, per le sue qualità linguistiche ed estetiche: non solo rivitalizza l’immaginario punk inaugurato con il primo capitolo della saga (Interceptor), ma possiede inoltre un montaggio adrenalinico e praticamente perfetto, un ritmo vorticoso e una vasta gamma di citazioni cinematografiche, soprattutto riguardanti il western, forse il genere prediletto da Miller. Un’opera “pura” dunque, dove la forma è il contenuto.
Le categorie fin qui descritte, anche se utili per una sintesi e un orientamento generali, risultano inevitabilmente schematiche e limitate, soprattutto perché escludono titoli importanti come Blackhat di Micheal Mann, Heart of the Sea di Ron Howard e Il ponte delle spie di Steven Spielberg.
E tra le opere che non rientrano nelle quattro “aree” sono da menzionare anche il film postumo di Claudio Caligari Non essere cattivo e Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, che ritraggono entrambe un’epoca e/o un gruppo sociale piuttosto definiti.
Il film di Caligari si svolge a Ostia negli anni ’90 e vede come protagonisti due giovani sottoproletari che vivono tra droghe e scorribande, ruberie e spaccio, amori e lutti, volontà di uscire dalla propria condizione e impossibilità di farlo completamente. Ciò in un’opera pasoliniana per la lucidità con cui descrive la periferia e quasi scorsesiana per ritmo, montaggio e ironia.
Forse il miglior film italiano dell’anno.
Vizio di forma è invece un noir ambientato nella Los Angeles degli anni ’70, in cui un detective hippie deve indagare sugli affari di un palazzinaro. Anderson, attraverso una trama volutamente criptica e confusa e delle atmosfere allucinatorie ci parla di un’America e di una generazione (quella degli anni ‘60/’70) che ha perso ogni valore e orientamento etico, completamente smarrita e confusa, destinata al definitivo decadimento.
Questo è, in estrema sintesi, il 2015 cinematografico nei suoi film, nelle sue forme, nelle sue riflessioni: un’annata divisa tra dissenso politico e smarrimento individuale, tra desiderio di cambiamento e volontà di omaggiare e ricordare il passato, storico e artistico.