diventiamo parte del problema» sostiene il medico Mads Gilbert, autore del libro Night in Gaza
di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Si può descrivere qualcosa di terribile come le ferite di guerra sui civili con dolcezza, rispetto e umanità? È quello che fa Mads Gilbert, uomo comune fuori dal comune, chirurgo di lunga esperienza, eroe per molti, tanti, a Gaza e fuori.
Da quindici anni, dai tempi delle cliniche mobili durante la Seconda Intifada, per passare alle guerre del 2008-9, 2012 e infine 2014, conosce e cura palestinesi feriti nelle guerre, prestando le sue preziose mani e il suo cuore agli ospedali palestinesi.
Le notti raccontate nella sua testimonianza Night in Gaza, recentemente tradotto dal norvegese all’inglese, sono quelle passate tra le fragili pareti dell’ospedale Shifa di Gaza City, il più grande ospedale della Striscia, teatro, due estati fa, di uno dei «più sorprendenti esempi di resilienza umana e coraggio», secondo Max Blumenthal, che del libro cura la prefazione.
Che Mads sia un essere umano straordinario lo si capisce già leggendo la sua introduzione: il rispetto assoluto per la sacralità, nel senso di unicità e insostituibilità, della vita umana; la decisione di non accontentarsi di «cucire ferite», ma di rendere fruibile la sua testimonianza attraverso la lettera aperta – scritta in inglese perché «magari l’avrebbero letta alcuni miei colleghi americani, oppure Obama», e poi con il libro e le foto, perché il mondo non chiuda gli occhi di fronte alle pupille spalancate delle persone che chiedono di non essere dimenticate; la delicatezza e la professionalità con la quale racconta ogni storia, ogni sutura, ogni personaggio, dall’instancabile collega Mohammed, amico conosciuto e ritrovato in tante emergenze; ad Ayman, il paramedico che da sempre voleva lavorare nelle ambulanze a Gaza; a Jumana, la bambina già ferità nel 2009 da schegge che le danneggiarono permanentemente una mano, miracolosamente ritrovata, insieme alla sua famiglia, integra e sorridente cinque anni dopo, sotto nuove bombe.
Al diario quotidiano, fatto di dubbi, lacrime, pensieri, concentrazione, cura per i pazienti, si affiancano spiegazioni sulle pratiche mediche, sull’urgenza di intervenire per bloccare l’emorragia dalla spalla di una ragazza, sulla necessità di tranquillizzare i bambini impauriti dal dolore e dalla confusione, di spiegare ai genitori che «è normale avere iperventilazione e dolori addominali» per via dello shock e dello stress. Con precisione e intelligenza sono spiegati i rischi delle schegge, la cui dimensione e velocità sono fattori pericolosissimi, le procedure da eseguire per mettere in sicurezza un’emorragia e tranquillizzare così il piccolo paziente di turno. Perché, come già denunciato dagli organismi internazionali e dalle ONG di settore, le prime vittime della guerra del 2014 sono state i bambini.
Ricorrente è l’accusa contro chi queste ferite permanenti – perché si può ricucire un taglio, ma non cancellare l’orrore vissuto – le causa e le aggrava.
Il blocco della Striscia rende impossibile la rifornitura di materiali medici, garze, siringhe, e medicinali. La chetamina viene sapientemente, nel senso di giusto dosaggio e accurata economia per non sprecarla, usata come unico anestetico, in mancanza di quelli veri.
Le tante fotografie che riempiono le pagine sono anch’esse parte integrante della testimonianza, rendono, come accade molto spesso, più di mille descrizioni. Mads specifica di aver chiesto il permesso di farle e pubblicarle sia alla direzione dell’Ospedale che ai familiari. Nonostante la loro silenziosa eloquenza, ogni fotografia è affiancata dalla data, l’ora, la situazione, la descrizione: un tocco di umanità e professionalità per ognuno di quei corpi straziati passati per i letti dello Shifa Hospital. Sono scatti presi in corsia o in sala operatorie, inquadrature di ferite, familiari che attendono, bambini, tanti bambini. Sono immagini vive, vivissime, anche quando chi è ritratto non si muove più, e allora delicatamente e rispettosamente il team di medici ricompone l’ultima vittima, mentre già nuovi feriti riempiono i corridoi.
Il libro è diviso in capitoli, per giorni, dal 13 al 24 luglio, e, all’interno dei giorni, per argomenti: le notti, le persone, gli eventi. Ogni dato menzionato è corroborato da fonti autorevoli, citate ed evidenziate, e pagine di bibliografia finale contribuiscono a fare di questo libro una lettura obbligatoria per chi, oltre alla storia umana dietro garze e teli verdi, vuole saperne di più su Gaza, sulla Palestina, su questa guerra ignobile, attraverso fonti professionali.
Alle descrizioni delle situazioni in corsia, tutt’altro che chirurgiche e asettiche, si affiancano profonde riflessioni, domande che scuotono le coscienze, urla di dolore. Non il dolore di una ferita di guerra. Peggio, il dolore di tanta inumanità pianificata a tavolino. Il dolore dell’impunità. Del silenzio.
Ci si affeziona ogni notte e ogni giorno a Mads – ed ad ognuno dei suoi colleghi, non vorremmo che andasse mai via da quell’ospedale, ci si affeziona ad ognuna delle persone che racconta, che fotografa. Si segue con apprensione l’esito dell’operazione chirurgica, la famiglia riunificata, si condividono l’iftar e il suhoor, i due pasti del ramadan, al tramonto e all’alba, con la stessa convivialità che provano i dottori, incluso Mads, stremati dal turno di 12 o 24 ore, al digiuno, eppure sorridenti di fronte al pasto caldo tanto atteso e certamente meritato.
Si può descrivere l’orrore in toni rispettosi, dignificanti e al tempo stesso ragionati, in modo che ogni parola, ogni fotografia, ogni persona, rimanga indelebile in noi, e smuova la nostra indifferenza.
Perché, come dice Mads, l’unica malattia di cui è affetto il popolo palestinese è la speranza cronica.
Le immagini di questo articolo sono tratte dalla pagina Facebook di Mads Gilbert