di Giulio Ricciarelli che racconta la Germania del dopoguerra
e la fatica di ricordare gli orrori nazisti
di Irene Merli
Il labirinto del silenzio, di Giulio Ricciarelli, con Alexander Fehling, Friederike Berthe, Robert Hunger-Buhler, Hansi Jochmann, Johannes Krisch, Lukas Miko, Johann von Bulow. Candidato all’Oscar per la Germania.
Dopo la II Guerra Mondiale, l’abbiamo già visto in altri film, i tedeschi avevano una gran voglia di tirare una riga sopra i fantasmi del passato e di rimuoverne il peso. Nel 1949, lo stesso cancelliere Adenauer si era fatto interprete del desiderio della sua gente che voleva solo dimenticare, o non sapere, e dedicarsi invece alla resurrezione materiale del Paese: nuovi edifici, nuove imprese, nuovi modi di vestirsi e di vivere.
Figuriamoci quindi come poteva essere possibile parlare di Auschwitz nel 1958, l’anno in cui inizia Il labirinto del silenzio, nella florida Francoforte. Ma la verità a volte trova vie impensate e inarrestabili per farsi strada, come vediamo accadere proprio in questo film.
Johann Radmann, un giovane avvocato da poco pubblico ministero, viene avvicinato da un giornalista anarchico ed ostinato che conosce un artista ebreo, sopravvissuto all’inferno del lager polacco. Simon ha riconosciuto uno dei suoi aguzzini in un insegnante di scuola elementare dai metodi pedagogici a dir poco severi. Come lui, infatti, negli anni Cinquanta molti, troppi ufficiali e carcerieri sono tornati nei ranghi della società, senza aver pagato per le loro colpe, in nome di una reintegrazione massiva. E nessuno sembra aver intenzione di perseguire legalmente questo individuo.
C’è già stata Norimberga a fare pulizia, e davanti a tutto il mondo…
Ma quando Radmann sente la storia di Simon, che ad Auschwitz ha perso la moglie e le due figlie gemelle finite nelle sperimentazioni di Mengele, rimane colpito a tal punto da volersi occupare del caso e per farlo chiede l’aiuto del procuratore generale Fritz Bauer: l’alto magistrato, ebreo fuggito in Svezia nel periodo nazista e tornato in patria dopo la sconfitta di Hitler, è convinto che l’opinione pubblica debba sapere la verità sulle atrocità del campo di concentramento polacco.
Così gli darà carta bianca e il coraggio di perseverare. Perché Radmann non ha neppure idea, all’inizio, dell’incubo in cui è destinato a entrare passo dopo passo, testimonianza dopo testimonianza: gli ex gerarchi nazisti hanno mantenuto protezioni ad altissimi livelli e la nazione migliore del mondo, come cantano i bambini nei cortili delle scuole, ha costruito un sistema in cui è molto più facile e dimenticare che ricordare.
«Vuole che ogni giovane tedesco si metta sospettare del proprio padre?» gli dice nei corridoio del tribunale un alto magistrato.
«La Germania sarebbe il primo Paese a processare i suoi soldati», gli ribadisce un poliziotto. Insomma, il giovane pm si trova a sbattere contro bugie, silenzi e complicità ogni volta che si muove. E rischia di finire travolto dall’orrore: l’indagine partita da singoli omicidi rivela la trama di uno sterminio di massa e una serie infinita di responsabilità con il regime hitleriano, compresa quelle di suo padre morto in guerra, del padre della sua fidanzata e del giornalista che lo aiuta, arruolato a soli 17 anni…
Il risultato di tanta forza e ostinazione sarà un processo in cui 22 criminali nazisti coinvolti nella gestione di Auschwitz compariranno davanti a un tribunale di Francoforte.
E anche se solo sei verranno condannati all’ergastolo, dopo questi procedimenti il silenzio in Germania sarà rotto per sempre.
Sia quello sugli aguzzini che quello delle vittime, barricate dietro il loro dolore, l’impossibilità del dire e le difficoltà del ritorno alla vita, in Germania come in Israele.
Film dossier teso come un thriller, Il Labirinto del silenzio parla di fatti veri e si prende libertà solo nel riassumere in un solo protagonista le figure di tre pubblici ministeri, quelli che, insieme a Fritz Bauer (alla cui memoria è dedicato il film), aprirono la strada alla sensibilizzazione della magistratura tedesca e all’assunzione del passato, da allora un dovere morale per il loro Paese.
Il regista, un italiano trapiantato in Germania, ha scelto il registro dell’investigazione per raccontare un momento storico che persino molti tedeschi non conoscono, figuriamoci gli altri… Non siamo davanti a un capolavoro, ma la vicenda è così importante e irreprensibilmente documentata che meriterebbe di essere proiettata nelle scuole.