l’emigrazione in Grecia: un’esperienza personale
che diventa memoria di un secolo
di Christian Elia
Albania, 1991. A poche ore di navigazione dall’Italia che stava per scoprirsi corrotta fino al midollo e per niente ‘da bere’, il regime claustrofobico di Enver Hoxha collassava rumorosamente, travolto dalla fine di un’epoca, che a Tirana più che altrove aveva lasciato solo isolamento e fame.
Gazmend Kapllani, che ora vive tra l’Europa e gli Stati Uniti, insegnando Letteratura e Storia europea, è poco più di un ragazzo che all’improvviso si trova senza futuro. Il partito/stato, nel bene e nel male, non ti chiedeva di pensare troppo, ma solo di essere incasellato in una vita. Senza vie di fuga.
All’improvviso tutto crolla e non resta nulla, se non una sparuta pattuglia di confusi soldati, a impedire la fuga, il viaggio, l’arrivo in quel mondo che i media occidentali (captati clandestinamente per anni in Albania) promettevano, vendevano. Un “occidente di sapone”, che si svela d’improvviso nella forma meno attesa: un campo profughi vicino alla stadio di una cittadina greca.
Kapllani, con una scrittura senza fronzoli, racconta la disillusione di un gruppo di albanesi differenti tra di loro ma uniti nell’idea che ci sono occasioni alle quali non si può rinunciare. Tradotto da Maurizio De Rosa, edito da Del Vecchio, nella bellissima collana FormeLunghe, Breve diario di frontiera è un documento di una rotta migratoria poco narrata.
La comunità albanese che si riversò in Grecia conobbe il razzismo e la durezza, una narrazione dei media che all’epoca iniziò quel lento e inesorabile processo di erosione dell’umanità del viaggiante e di disumanizzazione dell’accoglienza che ha prodotto i mostri con i quali ci confrontiamo ancora oggi, in Grecia e altrove.
Alla fine della parabola personale di Kapllani, che è anche fortunato, grazie all’incontro con un cineasta greco impegnato e comunista che lo porta via con sé, resta poco, quanto permane un affresco globale che ricorda lo scrittore bosniaco Alexander Hamon.
Un popolo in cammino che, all’improvviso, si presenta a bussare alla porta di chi, per anni, ha promesso un mondo diverso. Volete la libertà? Volete il benessere, l’abbondanza dei beni e dei consumi? Beh, tirate giù quel muro, e lo avrete. Solo che non è andata così.
E allora la libertà si infrange sulla manganellata di un poliziotto nervoso, sul pane lanciato nelle gabbie come si trattasse di animali, su rimpatri forzati, su lavoro sottopagato e sfruttato, che ti rende crumiro nella terra dei diritti. O presunti tali.
In nessun passaggio del libro di Kapllani c’è nostalgia per l’Albania del regime. Alla sua storia personale, vengono intervallate storie di albanesi ai tempi della claustrofobia, della delazione, del partito/stato che disponeva della vita degli altri senza pietà.
Ma emerge chiaro il senso di delusione per l’alternativa, promessa mancata di imbonitori disonesti, vicini che si rivelano molto più lontani di quanto lasciasse immaginare una frontiera, razzismi e incomprensioni.
Tra romanzo autobiografico e reportage narrativo, Breve diario di frontiera è un testo della memoria e dell’assurdo, nato per svelare l’ipocrisia delle frontiere e della retorica ideologica, al di là del lato del muro dal quale si guarda il mondo.