Intervista con l’autrice di Ci vediamo a Venezia,
romanzo che racconta l’immigrazione cinese in Italia
partendo da un’originale punto di vista
di Gabriella Grasso
Spesso, dal comfort delle nostre case, ridiamo di chi non parla bene la nostra lingua, ha un aspetto diverso dal nostro e abitudini che non conosciamo. Al posto di ridere, dovremmo applaudire: queste persone stanno facendo degli sforzi per cambiare la loro vita.
Questo è il senso della Ted conference che la giornalista canadese Suzanne Ma ha tenuto a Delft, in Olanda, nel 2015. Nata in Canada da genitori cinesi, ha studiato negli Usa e ha sempre tenuto vivo il legame con il Paese di origine dei suoi genitori. Da diversi anni si occupa di migrazione, ma per chi si sposta da un Paese all’altro preferisce usare la definizione di newcomers, ovvero nuovi arrivati.
«Newcomers è un termine meno carico di significati, più positivo rispetto a “migranti”», afferma.
Durante la Ted, Suzanne Ma ha riassunto in una parola l’atteggiamento che bisognerebbe avere nei confronti di chi si muove in cerca di una vita migliore e quella parola è: empatia. «Per esercitarla non occorre provare a immaginare come queste persone vivano, basta fare appello alla memoria: cosa abbiamo provato noi nelle situazioni in cui ci siamo sentiti fuori posto?». La giornalista ha chiuso la conferenza invitando tutti a sperimentare, anche nella propria città, cosa significa essere un newcomer: uscendo dal proprio usuale perimetro di azione, scoprendo posti nuovi e incontrando gente nuova. «Farlo», ha chiarito durante l’intervista che leggerete qui sotto «ci rende persone migliori».
Lei il salto l’ha fatto, ed è stato piuttosto coraggioso: ha lasciato un buon lavoro come giornalista a New York e si trasferita per un anno in Cina, con l’idea di scrivere un libro sui migranti della provincia di Qingtian (luogo di origine della famiglia del marito). Non voleva solo raccogliere testimonianze. Voleva sperimentare sulla propria pelle cosa significa essere una newcomer: nel Qingtian si parla un dialetto che lei non comprende, si mangiano cibi e si vive secondo abitudini che lei ignorava prima di iniziare quell’esperienza.
Nel Qingtian Suzanne ha incontrato diffidenze e chiusure, ma anche trovato persone disponibili al confronto. Tra queste, Pei.
All’epoca aveva 16 anni, sua madre viveva in Italia da cinque e lei, con il padre e il fratello, era in attesa del ricongiungimento familiare. Quando i documenti sono arrivati, Pei è partita. E la giornalista con lei.
Durante i periodi trascorsi in Italia con la giovane newcomer, Suzanne ha anche approfondito la conoscenza della comunità cinese in Italia. E alla fine ha scritto un libro estremamente interessante e ben documentato, pubblicato da Giunti: Ci vediamo a Venezia (euro 14,90). Leggendolo entriamo nella vita quotidiana e nei pensieri di Pei iniziando a renderci conto, davvero, di come possa essere difficile per chi arriva da un Paese culturalmente così diverso dall’Italia, trovarsi a casa qui da noi. Un esempio molto semplice: Pei soffre della propria incapacità di pronunciare la consonante “r” e passa ore ad allenare la lingua sul palato, sforzandosi di far uscire quel suono inusuale dalla bocca. Ce la mette tutta, si impegna, ma ha bisogno di tempo. E forse è ciò di cui tutti i migranti hanno bisogno: tempo.
Il tuo libro mi sembra importante perché apre una finestra sulla comunità cinese in Italia, con cui non sempre si ha occasione di entrare in relazione. La mancanza di contatto produce ignoranza, che genera pregiudizio. D’altra parte, è inutile nasconderlo: molti di noi percepiscono la comunità cinese un mondo a parte, chiuso nelle sue regole e poco aperto allo scambio con gli italiani.
«I pregiudizi ci sono da entrambe le parti e scatenano una sorta di guerra fredda tra le due culture. Ho l’impressione, però, che in Italia le cose stiano cambiando: da una parte arrivano giovani curiosi e motivati come Pei. Dall’altra crescono le seconde generazioni. Il problema, semmai, è che questi ragazzi, pur andando a scuola in Italia e percependosi interiormente come italiani, capiscono di non essere considerati tali all’esterno e finiscono con il sentirsi fuori posto.
L’integrazione ha sempre bisogno di tempo, però occorre che lo sguardo rispetto ai newcomers, i nuovi arrivati, cambi: specialmente in questa epoca globalizzata.
Quando i primi migranti arrivarono nel Nord America, nessuno sapeva niente della Cina, non esisteva internet, la comunicazione era difficile. Ora che ci sono molte meno barriere, le difficoltà di integrazione dovrebbero essere minori. Non è così, ma io sono ottimista: diciamo che i tempi sono più lenti di quanto potrebbero essere. Il mio libro ha anche lo scopo di “umanizzare” l’esperienza dei migranti cinesi, invitando i lettori a vederli come esseri umani, madri, padri, figli».
Posso rivelarti una sensazione personale? Delle varie zone ad alto tasso di migrazione di Milano, la Chinatown di via Paolo Sarpi è quella dove mi sento più diversa, fuori posto. Persino non benvenuta.
«C’è da dire che in Italia negli ultimi 20 anni c’è stata una migrazione massiccia dalle zone della Cina Orientale, che hanno una cultura molto diversa anche dalla mia e da quella della mia famiglia. Se mi trovo tra di loro mi sento anch’io un’estranea, perché abbiamo un dialetto e un background socioeconomico diverso… E io sono cinese! In generale, però, credo che parte della questione sia questa: la Cina oggi è una potenza in forte crescita e per questo i cinesi provano un grande senso di fiducia e di orgoglio nei confronti del proprio Paese. Chi ha 60 anni ricorda bene l’epoca in cui mangiava erba, non aveva scarpe e viveva in totale povertà.
Oggi tutti hanno molto di più. Questa transizione si accompagna a un forte senso di identità nazionale e alla fierezza di appartenere a un Paese con una storia e una cultura millenarie. Secondo me è anche per questo che alcuni dei newcomers più recenti si attaccano con maggiore vigore alle proprie identità e tradizioni.
Quando i cinesi iniziarono ad arrivare in Canada e Stati Uniti, 100 anni fa, creando le prime chinatown a Vancouver e San Francisco, scappavano da situazioni di grande disagio e, sebbene coltivassero il sogno lontano di tornare un giorno in Cina, di fatto tutto ciò che desideravano era lasciarsi il passato alle spalle e ricominciare daccapo in una nuova Terra nella quale sentirsi a casa. Oggi che le cose in Cina stanno migliorando e la mobilità internazionale è più semplice, i migranti hanno maggiori opzioni: quindi vanno via per migliorare la propria situazione economica, ma con l’obiettivo concreto di ritornare a casa. Forse, per questo, alcuni di loro limitano gli sforzi di integrazione. Ma ci sono anche le persone come Pei, che incarna la tipologia migliore di migrante: quello che non dimentica il proprio Paese ma, nel frattempo, fa di tutto per integrarsi».
A sottolineare la differenza tra la cultura cinese e quella italiana, nel libro racconti episodi che, oltre a far riflettere, ci spingono anche a sorridere. Per esempio: ogni italiano è convinto che il valore di città d’arte come Venezia o Firenze sia universale. Eppure tu hai incontrato cinesi che quasi disprezzano i nostri monumenti (al contrario di Pei, che sogna da sempre di visitare Venezia, ed ecco il perché del titolo).
«Questo ha ovviamente a che fare con il livello di istruzione di queste persone: non attribuiscono alcun valore nemmeno alle antichità cinesi! Tuttavia il loro atteggiamento potrebbe anche essere il riflesso della Cina moderna: già da prima delle Olimpiadi del 2008, a Pechino e in altre città è iniziata la distruzione degli hutong, i suggestivi vicoli sui quali sorgono bellissime case antiche. Il motivo? Fare spazio a condomini e uffici. Questo accade oggi in Cina: il vecchio viene eliminato per far posto al nuovo. Succede ogni volta che c’è sviluppo: è stato così anche in Europa prima che si acquisisse la consapevolezza dell’importanza di conservare il passato».
Un altro momento che tu hai chiaramente trovato divertente – e anche esemplificativo della differenza di prospettive – è quando Mao, il fratello di Pei afferma che sì, l’Italia è un bel Paese, ma insomma, non c’è niente di buono da mangiare… E Mao – tra l’altro – vive in Emilia!
«Quando Mao fa quel commento era arrivato da meno di un anno, non si era ancora abituato alla cucina italiana. All’epoca Pei trovava disgustoso il salame e si rifiutava di mangiare l’insalata. Quando l’ho incontrata di nuovo, mesi dopo, l’insalata era entrata nella sua dieta abituale. Aveva solo bisogno di tempo. Quello che mi colpisce di Pei è che ogni volta che la vedo o la sento è diversa, si trova in un’altra città, ha nuovi progetti. I migranti che arrivano oggi cambiano velocemente vita e processi mentali: sono molto adattabili. Se vogliamo costruire dei ponti verso di loro, concediamogli del tempo. Non puoi convincere nessuno ad amare un cibo. Ma con il tempo, imparerà ad apprezzarlo da solo».
Credi che i migranti cinesi siano diversi dagli altri?
«Fermo restando che la loro cultura è molto diversa da quella occidentale, con una visione e un approccio alla vita unici, in un certo senso tutti i newcomers sono uguali. Sono uomini e donne estremamente coraggiosi e determinati a darsi da fare per ottenere qualcosa di più. Ovviamente anche tra di loro ci sono le mele marce, che vogliono approfittare delle situazioni e non partecipare alla crescita della società, ma sulla base della mia esperienza posso dire che la maggior parte dei migranti lavora tantissimo, con il fine di garantire una vita dignitosa alla propria famiglia e dare un contributo positivo alla società».
A un certo punto del libro tu racconti di una manifestazione che i migranti cinesi in Francia fecero nel quartiere parigino di Belleville nel 2010, durante la quale un dimostrante affermò: «A volte si ha l’impressione che, nell’inconscio collettivo, tutto quello che è “Made in China” non valga niente, incluso gli umani». Questa frase, nella sua ferocia, mi ha estremamente colpito. Non avevo mai pensato che, a forza di associare la parola “cinese” a qualcosa di economico e di scarso valore, si corra il rischio di svalorizzare un’intera comunità dal punto di vista umano. È un dato di fatto che, nelle nostre città, i cinesi si propongano soprattutto come quelli che producono e riparano oggetti, vendono gadget, tagliano capelli, cuciono abiti, a meno di metà del prezzo degli italiani. Una percezione generalizzata di “basso valore umano” potrebbe davvero affermarsi (o essersi già insinuata, in maniera inconsapevole, nelle nostre anime)?
«Mi sono posta anch’io la stessa domanda. Devo dire che la situazione a Belleville era incandescente e che la sensazione espressa da quel manifestante era senza dubbio frutto di un momento di crisi. Tuttavia, l’argomento è interessante. E mi viene da dire che la storia si ripete. Se è vero che il maggior contribuito che la Cina dà oggi all’economia mondiale deriva dalle sue industrie che producono beni economici a costi bassi, è anche vero che l’industria cinese si sta evolvendo, sta diventando più complessa. I salari iniziano a crescere perché si sta costituendo una classe media, tanto che la produzione tessile si sposta in Bangladesh.
Quindi questa associazione mentale tra cinesi e merci economiche/di scarso valore è destinata a cambiare.
Se io ti dico Giappone, tu a cosa pensi? Alla tecnologia, alla qualità. Be’, se guardi alla storia dell’industria manifatturiera giapponese ti accorgerai che fino a qualche decennio fa anche loro producevano merci semplici e di scarso valore. Un oggetto Made in Japan aveva vita breve. Oggi, però, il Made in Japan è sinonimo di attenzione ai dettagli e qualità che vale la pena pagare. C’è voluto tempo perché la produzione – e con essa la percezione degli acquirenti – cambiasse. Io credo che il brand Made in China si stia già evolvendo: forse il grande pubblico non lo sa ancora, ma piano piano ce ne accorgeremo tutti. E questo cambierà forse anche il modo di guardare la comunità».
Alla fine del libro tu chiedi a Pei se ritiene sia valsa la pena di venire in Europa. Lei risponde: «Qui la nostra mente è più attiva. Pensiamo con maggiore lucidità delle persone rimaste in Cina. Le rotelle del nostre cervello girano più veloci». Però elude la domanda…
«Lo fa perché è il genere di persona che non crede nei rimpianti. Affronta le situazioni per come si presentano. È l’atteggiamento più funzionale se sei un migrante: non puoi passare la vita a domandarti cosa avresti potuto o dovuto fare. No: prendi il meglio di quello che c’è e vai avanti. I rimpianti sono uno spreco di energie mentali e di risorse. E i newcomers non hanno tempo da perdere».