di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Sarà la quinta o la sesta volta che lo dico, in dieci anni. Non sarà mai l’ultima, lo so.
Ho usato circa 20 metri di rotolo di plastica anti-urto, quello con le bollicine, e immense quantità di cellophane, giornali e cartoni per riempire tre anni di vita in circa 18 tra scatole, valigie, e altri pacchi dalle forme più inconsuete, che in qualche settimana sono finite nella casa romana, in attesa di nuova collocazione. Nella prossima destinazione non potrò portarle, con grande sollievo del trasportatore, esausto dopo il quinto viaggio per le scale. Come il temporaneo diventa permanente in Palestina, così quei tappeti beduini cuciti a mano dalle donne di Hebron rimarranno arrotolati nel cellophane nero ancora per un bel po’.
È l’arrivederci più doloroso, poiché arrivato un po’ inaspettato, ma il più sereno. Perché mai come altre volte ho la certezza non solo di tornare – “we will see you”, è il saluto che mi rivolgono tutti, sicuri che non sarà l’ultima volta che bazzicherò Salah Ed Din e la porta di Damasco – ma del fatto che Gerusalemme, la Palestina, la terra-poco-santa tutta, costituiscono una parte fondamentale della mia vita, come tatuaggio indelebile che mi porto orgogliosamente addosso.
Perché il mondo si divide in chi ha avuto la fortuna, l’onore, il privilegio di servire la Palestina, di conoscere i palestinesi, di entrare a Gaza, e chi no.
Se si toglie la lente religiosa, e si guarda al conflitto di questi sessanta – e più – anni, non si può non capire che si tratta di un gioco politico, anzi geopolitico, puro, per il controllo di risorse, confini, terre, persone. Che veli, croci e boccoli neri sono per lo più strumentalizzati per muovere opinioni pubbliche in maniera facile e superficiale. Cosa che viene abbastanza facile quando al centro delle controversie vi è una delle città più antiche del mondo, popolata da almeno diciassette civiltà diverse nel corso di millenni, e quando il pellegrino medio non si avventura fuori dal circuito turistico e commercialissimo della via dalla porta di Jaffa al Santo Sepolcro, non sia mai che veda un muro, un mitra, o semplicemente la povertà dei vicoli più nascosti della Città Vecchia.
Ad un’analisi più profonda, come sarebbe auspicabile, ci si rende conto che la terra-sempre-meno-santa raccoglie le istanze più universali, a cui è estremamente difficile rimanere indifferenti, soprattutto dopo averci messo piede. La strumentalizzazione del dolore collettivo e della memoria storica per fini politici, nazionalisti e discriminatori, innanzitutto, è solo il primo degli abusi. Immagino chi a quel dolore unico ed indescrivibile ne sia sopravvissuto, e come si sentirebbe vedendolo usato come copertura morale della politica nazionale. La regola non scritta che ci sono esseri umani di serie A e B, o forse Z, di fronte alla legge. Le punizioni collettive, come strumento di umiliazione di singoli individui, ma anche di gruppi sociali riferimento e protezione, per indebolirle sempre di più, famiglie e associazioni in primis.
L’ingiustizia tout court. Quella che ti fa urlare di rabbia, ma che unisce le persone tramite la solidarietà, e ti fa tenere la testa alta di fronte all’ennesimo abuso dei tuoi diritti di essere umano. La sensazione di far parte di un progetto collettivo, non quello di tirare sassi o tirar fuori coltelli, ma quello di combattere con le altre armi, quelle della testa e del cuore, per mettere fine ad una delle più grandi ingiustizie del nostro tempo.
La resistenza quotidiana, il continuare a vivere “nonostante tutto”, è l’unica vera contro-arma all’occupazione dei diritti e delle vite. Ne abbiamo parlato tante volte. È un modo di vivere che si impara naturalmente, e diventa l’unica forma di protezione contro chi vuole cercare di annullarti, di farti vivere una vita impossibile, di farti rinunciare da solo.
E allora vivere diventa la corsa in macchina a salutare M., di passaggio – veloce – in West Bank, direttamente da Erez al ponte di Allenby per poter prendere un aereo in Giordania. Quattro ore di aereo da Amman a Parigi, ma circa due giorni per compiere il percorso dalla sua casa di Gaza City fino all’aeroporto giordano. Due confini, infinite attese, troppi permessi. Ci salutiamo al volo in una stazione di benzina dietro Issawya, un quartiere di Gerusalemme Est schiacciato dalla costruzione edilizia dell’area E1, ormai tristemente famoso solo per i blocchi stradali e i lacrimogeni della polizia israeliana durante gli scontri del venerdì.
Le abbiamo portato il kaak, la ciambella di pane al sesamo, della Città Vecchia, ed i falafel – quelli grandi. “Il vero kaak palestinese è solo quello della Città Vecchia”, mi spiega H., mentre cerco il solito banchetto fuori dal mio ex ufficio, sicura che il loro pane provenga da uno dei forni di Damascus Gate.
Mangiamo kaak, falafel e zaatar, tagliando pezzi di pane con le mani, aprendolo, togliendo un po’ di mollica, spiaccicando per bene un pezzo di falafel attraverso il pane e condendolo con un pizzico di sale e zaatar, come è la tradizione, seduti sul marciapiede fuori dalla stazione di benzina, caffè e tè fumanti appoggiati per terra. Siamo felici.
Ci abbracciamo, ognuna diretta verso direzioni diverse, sapendo che la vita ci può portare, per scelta nostra o meno, in posti diversi, lontani geograficamente e logisticamente, ma che la vicinanza del cuore rimane, ora che l’abbiamo conosciuta.
Rimane quella sensazione di aver condiviso tanto, di aver costruito un altro pezzetto di Palestina insieme, non tanto la clinica mobile di Walajeh, le tubature di Gaza, il centro per bambini a Shufat Camp, bensì quell’idea di libertà, di coesistenza pacifica, di riconoscimento reciproco, di tutela e uguaglianza per la quale ci svegliamo e combattiamo, ognuno con le proprie armi intelligenti, ogni giorno, in qualsiasi luogo del mondo.
Ecco che allora la Palestina è ovunque, nei CIE di Lampedusa, negli accampamenti di Ventimiglia, sulle spiagge di Lesbo, nei vicoli di Madaya. A ricordarci che essere umani non è uno slogan, ma un modo di vivere.