Burkina Faso, attacco alla democrazia (non quella occidentale)

Quello che ha colpito Ouagadougu non è (solo) l’ennesimo attentato di al-Qaeda contro un luogo in qualche modo simbolico, ma è soprattutto un segnale a un popolo che aveva rifiutato l’autoritarismo e alcuni compromessi inconfessabili

di Davide Maggiore

«È un attacco alla democrazia». Quante volte abbiamo letto, solo negli ultimi mesi, questa frase? Charlie Hebdo, il Bataclan e lo Stade de France, l’hotel Radisson Blu di Bamako, Jakarta: l’elenco non conosce frontiere geografiche. Dovunque l’estremismo colpisca, l’attacco è «alla democrazia». O meglio a quella sua definizione – fatta propria da molti commentatori – che non comprende solo i diritti di libertà (suo ovvio e indispensabile presupposto) ma in più una serie di veri o presunti “valori” e uno stile di vita descritto come genericamente “occidentale”. Anche quando è semplicemente quello praticato da alcune classi sociali in alcune parti dell’Occidente.

“Democrazia” e “Occidente” diventano, insomma, sinonimi a tal punto da mangiarsi qualunque altro particolare, qualsiasi altra sfumatura. E quando, come venerdì sera, ad essere colpiti sono locali e alberghi di Ouagadougou, in Burkina Faso, l’associazione è immediata.

Lo Splendid diventa automaticamente «l’hotel degli occidentali» (come nel titolo di uno dei principali siti d’informazione italiani) e l’azione viene vista semplicemente come un colpo agli interessi della Francia – indubbiamente presenti – come se il paese africano non ne fosse che un’appendice.

In questo modo, però, oltre a fare paradossalmente il gioco degli stessi attentatori (nel comunicato di rivendicazione i combattenti vicini ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico citano esplicitamente la presenza delle truppe francesi in Mali e in Repubblica Centrafricana), si scordano molte cose. Si scorda, ad esempio, che lo Splendid e il Cappuccino erano frequentati anche da molti africani (almeno cinque su 29 sono solo i morti burkinabé); ma si dimentica, prima di tutto, di raccontare in quale Stato tutto questo è avvenuto.

Uno Stato che non ha bisogno di riempire di “valori” e “stili di vita” il concetto di democrazia, perché gli ha ridato vita almeno tre volte nell’ultimo anno e mezzo. Prima costringendo alla fuga ad ottobre 2014, dopo tre giorni di mobilitazioni popolari, l’allora presidente Blaise Compaoré, che aveva “regnato” per 27 anni. Poi, lo scorso settembre, sollevandosi contro l’offensiva dei fedelissimi del dittatore deposto, che guidati dal generale Gilbert Diendéré avevano tentato un golpe alla vigilia delle elezioni. Infine, votando in massa il 29 novembre per scegliere il nuovo presidente – Roch Marc Christian Kaboré – e il parlamento.

È a questa democrazia – non a una generica e ideale – che l’attacco è stato portato.

Alla terra degli uomini integri (questo significa Burkina Faso) che ha mostrato finora di rifiutare ogni cedimento all’autoritarismo e ai quei patti inconfessati e inconfessabili che lo rendono il miglior amico dell’estremismo. Nella regione del Sahel, più volte bersaglio di attacchi – non solo rivolti a interessi “occidentali” – il Burkina Faso ne era rimasto finora immune. Una conseguenza – a Ouagadougou non è un mistero per nessuno – anche della capacità di equilibrismo dimostrata da Compaoré, per quasi un trentennio amico delle grandi potenze mondiali e regionali (Usa e Francia in particolare) ma anche capace di trattare con i movimenti islamisti in occasione dei rapimenti di ostaggi europei degli ultimi anni. Trovando proprio nel fedelissimo Diendéré l’uomo più adatto per svolgere questo compito.

I morti di Ouagadougou sono figli anche della fine di questo compromesso, difficile da ammettere a migliaia di chilometri di distanza, soprattutto nel momento in cui i suoi benefici toccano anche i cittadini dei paesi occidentali. Ma non vederne l’esistenza, allo stesso tempo, equivale a trasformare ogni denuncia del terrorismo in un proclama monco. E le grida sull’attacco alla democrazia in un puro espediente retorico.