di Massimo Conte
Con i miei amici e colleghi di Codici ci siamo occupati di gang latinoamericane a Milano per anni. Personalmente, dal 2004 e fino al 2012. Un lavoro intenso di ricerca e intervento, ricco di contraddizioni come ricchi di contraddizioni erano i mondi che abbiamo frequentato.
Soprattutto da quando abbiamo smesso di lavorare in strada, sento di avere un atteggiamento ambivalente e contraddittorio (anche questo!) verso la presa di posizione pubblica su quello che abbiamo visto e imparato. Da un lato, ne riconosco la necessità e l’urgenza perché so che molto di quello che abbiamo imparato è utile per ragionare sulle politiche sociali rivolte ai mondi giovanili, così come potrebbe avere un ruolo importante nello smontare le retoriche della paura. Dall’altro, però, sento che queste stesse retoriche hanno il potere incredibile di mettere nella propria cornice e di fare da sfondo anche a discorsi che le potrebbero criticare e smontare. Soprattutto in un momento in cui a parlare del rapporto tra violenza e giovani sono le inchieste della magistratura o quelle (generalmente molto meno serie) dei media. Scrivo questo per arrivare a dire che quando prendo in mano un libro che parla di questi temi lo faccio sempre con un misto di invidia e di rimpianto.
In fondo, lo so, mi sto dicendo che quel libro avrei voluto che lo scrivessimo noi.
Il libro che ho in mano adesso si intitola Il limbo urbano, è stato scritto da Paolo Grassi e pubblicato da Ombre Corte. Paolo è un ricercatore di Varese, dottoratosi a Verona; una persona che ho imparato a conoscere come molto riservata, ma anche molto determinata. Detto tra parentesi, è anche un musicista: è diplomato al conservatorio e suona folk rock.
Paolo ha trascorso un sacco di tempo in Repubblica Dominicana e in Guatemala a fare l’antropologo e l’operatore sociale. Il libro racconta della sua esperienza in Guatemala: il sottotitolo recita “Conflitti territoriali, violenza e gang a Città del Guatemala”.
La sua ricerca prova a rispondere a una domanda apparentemente semplice. Ovvero perché esistono divisioni sociali nelle città e per chi sono funzionali.
Ciò che rende interessante il libro è che rifiuta ogni schema dicotomico e semplificatorio. Dove la retorica sicuritaria vede divisioni e contrapposizioni, Paolo vede relazioni tra gruppi sociali e tra spazi all’interno di dinamiche di potere. Per mostrarci relazioni e dinamiche Paolo ci accompagna in tre luoghi: un barrio popolare, «una zona rossa secondo l’etichetta imposta dai media locali a vaste porzioni del territorio urbano considerate pericolose e marginali»; il carcere identificato come specchio del barrio e «indispensabile valvola di sfogo delle politiche repressive contro l’insicurezza pubblica»; una gated community, «un quartiere cintato e sorvegliato ventiquattro ore al giorno, luogo precipuo dell’auto-segregazione contemporanea dei ceti medio-alti».
Il racconto di Paolo, ricco di annotazioni sul campo e di riferimenti ad altri autori, mi aiuta a mettere in fila alcuni pensieri che nascono dalle chiavi di lettura che lui mi offre. Io e lui ci siamo dati e vi diamo appuntamento il 21 gennaio per parlarne insieme alla Libreria Les Mots.
Anche in contesti urbani segnati da grandi diseguaglianze e da processi di segregazione, come molte delle metropoli simili a Città del Guatemala, è impossibile realizzare la distopia della perfetta separazione tra gruppi sociali che evocano il senso di insicurezza e chi cerca la propria sicurezza.
La società, anche al suo massimo grado di scollamento tra gruppi sociali, vive e si nutre di relazioni.
Ci sarà sempre bisogno di qualcuno che attraversa il proprio quartiere popolare e malfamato per pulire le case, curare i giardini, vigilare armato all’interno delle fortezze dei sicuri. Non solo, il mondo contemporaneo, così caratterizzato da movimenti migratori che ne riconfigurano le geografie umane, crea il paradosso per cui i contesti più segregati vivono di relazioni transnazionali attraverso cui si scambiano con altre città, altri paesi, altri continenti non solo notizie e affetti, ma beni e risorse economiche.
In ultimo, per costruire una cittadella fortificata ci sarà sempre bisogno di qualcuno che possa rappresentare il pericolo da cui fuggire.
La costruzione di una comunità, sicura dei propri confini, passa attraverso la costruzione di un altro da cui differenziarsi. Questa costruzione, Paolo ce lo ricorda in più passaggi perché non ce lo si dimentichi, è un progetto politico, riguarda le ipotesi di costruzione della società. Soprattutto, è un progetto politico che ha bisogno di continuare a costruire e generare segregazione perché ha bisogno di raccogliere consenso tra gruppi sociali additando l’altro pericoloso: il povero, colpevole della propria povertà e della propria cattiveria.
Nulla di più facile per chi vuole costruire l’altro pericoloso che rivolgersi ai giovani, soprattutto quando questi giovani si trovano nella situazione contraddittoria e ambivalente di voler raggiungere gli stessi obiettivi di successo sociale condivisi dal resto della società, ma senza averne i mezzi. La combinazione tra condizione giovanile e condizione di povero segregato è una combinazione sempre esplosiva, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi contesto culturale. Che siano le banlieue parigine, i quartieri periferici italiani, o i barrio popolari guatemaltechi, il risultato è spesso simile. La gioventù si nutre di una violenza che, privata di un progetto politico e sociale alternativo, prova a generare successo e rispetto personali all’interno di un contesto in cui quei giovani non trovano strade alternative.
Di più, nel libro Paolo ci aiuta a scoprire come quella violenza giovanile sia generata e alimentata dal sistema in cui si inserisce.
La violenza delle gang è erede di una violenza che storicamente la precede e che ha segnato la biografia di molti paesi centro e latino americani. Il ‘900 è stato un secolo ricco di conflitti violenti che hanno visto contrapposte le forze militari e paramilitari, espressione di blocchi politici di destra e dei blocchi sociali legati ai mondi dei grandi proprietari, con le forze espressione di mondi urbani e rurali che provavano a liberare se stessi e la società. Alla violenza storica si è aggiunta la violenza politica e simbolica delle politiche liberiste che, anche una volta terminata la stagione della violenza armata, hanno continuato ad alimentare la disuguaglianza.
Anche per questo la violenza giovanile non riesce a mettere in scacco le relazioni di potere delle società in cui nasce e si alimenta. L’insorgenza giovanile che alimenta di nuove leve il mondo delle gang, piuttosto, tende a costruire un rapporto contraddittorio con i quartieri in cui nasce e si consolida. Il quartiere, il barrio, corrisponde al farsi territorio della gang. La clica, l’unità territoriale delle gang di cui si occupa Paolo, è la reale appartenenza per molti dei ragazzi che fanno parte di gruppi apparentemente transnazionali come laMara Salvatrucha o la 18. Se ci avvicinassimo a questi mondi avendo in mente la struttura piramidale e gerarchica di molta parte della criminalità organizzata (per intendersi il tipico modello che ci viene in mente quando parliamo di mafia) non riusciremmo a comprenderne a fondo le dinamiche. Vista dal basso, la realtà è fatta da gruppi che spesso non superano i confini del proprio quartiere se non dal punto di vista del proprio immaginario, collegandosi a una mitologia e a un mondo di segni culturali transnazionali, e quando le politiche di incarcerazione non li rendono effettivamente una gang con gerarchie definite.
Il quartiere, allora, è il contesto che consente di alla gang di sopravvivere e di riprodursi facendosene, al tempo stesso, consumare e sfruttare.
Personalmente, vedo in questo l’aspetto centrale dell’esperienza di strada dei ragazzi e delle ragazze che vivono il mondo delle gang. Sono costretti dentro sistemi di doppi vincoli da cui non riescono a uscire: più usano mezzi violenti per raggiungere il successo e il rispetto socialmente costruito, più alimentano la violenza e le politiche di segregazione che impediscono loro di raggiungere le proprie mete; più esercitano il proprio dominio sul quartiere in cui risiedono più mettono in pericolo le proprie risorse territoriali e generano richieste sicuritarie che puntano a espellerli anche dal proprio luogo di crescita e di appartenenza.
Ecco, mi fermo qui. Anche se la lettura del libro mi ha confermato in convinzioni che mi porto dietro da tempo e di cui vorrei scrivere di più.
Non è possibile conoscere realmente mondi complessi senza viverli, non li si può attraversare senza esserne attraversati e senza riconoscere a se stessi di essere parte delle contraddizioni che si vorrebbe comprendere.
C’è una responsabilità nei confronti dei mondi a cui accediamo che non può essere dismessa a meno di non accettare di essere noi stessi parte dei meccanismi di dominio. Questa responsabilità lega l’azione di conoscenza a quella sociale, a quella politica. La terza è sempre quella più complicata da guadagnare, forse, anche per questo, quella decisiva.
L’immagine in apertura è una fotografia di Città del Guatemala tratta da Wikipedia