di Clara Capelli
Una curva che va su su su e poi giù giù giù. Una bella, armoniosa campana, una simpatica “U al contrario”. Si chiama curva di Kuznets – dal nome dell’economista Simon Kuznets – e la si trova in molti manuali di economia per descrivere il rapporto tra disuguaglianza e crescita del PIL.
Ecco, se vi siete indignati per la recente pubblicazione di Oxfam Un mondo al servizio dell’1 percento , sappiate che per capirci un poco di più bisogna partire proprio da qui. Una scelta arbitraria, certo, ma fidatevi.
Il concetto è semplice e intuitivo, per questo la curva di Kuznets piace tanto. In un ipotetico punto zero della storia economica di un Paese, siamo tutti poveracci uguali. Poi si inizia a crescere e chi fa gli investimenti ci guadagna un po’ di più rispetto alla forza lavoro salariata, così che si diventa progressivamente più diseguali. Infine, a un certo punto, produttività e profili di crescita saranno tali da permettere una distribuzione delle risorse tale per cui si tornerà a essere un più uguali.
Lasciamo perdere le noiose diatribe sulla validità della curva di Kuznets, perché essa è figlia di un altro mondo. Kuznets scriveva negli anni Cinquanta e lui stesso, pioniere della misurazione dei fenomeni economici, nutriva dei dubbi sulla completa affidabilità dei dati utilizzati, visti i problemi di disponibilità e accuratezza (è spesso così ancora ai giorni nostri, i dati sono come il nostro cibo preferito: in fondo meglio non sapere come sono fatti).
Ciò che ne è rimasto – e che è importante comprendere per capire a che punto siamo oggi – è l’idea della favola rassicurante che è stata letta lungo questa linea: un po’ di disuguaglianza ci vuole per crescere, ma non vi preoccupate, poi tutto si aggiusta (nella lingua degli economisti si chiama trickle down effect: sii paziente, prima o poi la manna dal cielo cade).
A definirla “favola” è proprio la discussa rockstar dell’economia Piketty nel suo Il Capitale nel XXI secolo, il quale appunto insiste su questa interpretazione tra il magico e il fideistico come base per il suo colossale – e controverso – lavoro al fine di evidenziare come, al contrario, non solo siamo lontani dal punto di svolta, ma con ogni probabilità ne stiamo prendendo ancora di più le distanze.
Probabilmente è da leggere in questo senso lo scalpore suscitato dal lavoro di Oxfam, pubblicato il 18 gennaio a due giorni dall’inizio del World Economic Forum. I risultati, in effetti, non possono (e non devono) lasciare indifferenti: 62 miliardari dispongono di una ricchezza pari a quella della metà meno abbiente della popolazione mondiale (stiamo parlando di oltre 3 miliardi e mezzo di persone), una ricchezza che è aumentata di circa il 44% negli ultimi 5 anni.
Al di là delle frasi ad effetto con riferimento all’evocativo 1% (che, se la matematica non è un’opinione come diceva la maestra delle elementari, corrisponde a più di 70 milioni di persone) e alle questioni legate alla qualità dei dati e alla loro elaborazione (misurare la disuguaglianza è impresa non da poco, credetemi), il rapporto di Oxfam ci ricorda ancora una volta che qualche problemino di distribuzione delle opportunità e delle risorse questo nostro mondo ce l’ha.
Ci ricorda l’urgenza di un problema, ma non ci svela niente di nuovo. Sono anni che la questione è tornata di moda dopo i ruggenti anni Ottanta e Novanta, quando la disuguaglianza era percepita essenzialmente come il risultato di maggiori doti e meriti di qualcuno rispetto ad altri e come un male “un po’ necessario” per dare l’incentivo ai privati a investire e trainare la crescita (tanto prima o poi tutto si aggiusta, mai abbandonare la speranza).
Senza scomodare i movimenti no-global a cavallo dei due millenni (si dovrebbe, ma rimandiamo a un’altra volta), un momento cruciale di svolta è rappresentato dal 2011. La crisi finanziaria – negli Stati Uniti, in Europa, ovunque nel mondo – ha segnato le coscienze, mostrando che la disuguaglianza non è sempre il prodotto di impegno e talento, ma anche di un sistema di privilegi che si autoalimentano a danno della maggioranza.
Se preferite, pensate all’opposizione tra l’1% e il 99%, come rivendicava il movimento #OccupyWallStreet, ma il concetto non cambia. La redistribuzione non arriva per la magia degli automatismi del mercato, anzi, senza nessun intervento della politica economica è più probabile la situazione peggiori.
Piketty in questo senso ha giocato un ruolo molto importante. Non è il primo economista che si occupa di disuguaglianza – il suo mentore accademico Anthony Atkinson è un punto di riferimento in materia – ma è forse colui che riesce a dare rigore scientifico (anche in questo caso sorvoliamo sui dibattiti circa la metodologia utilizzata) e quindi, in un mondo in cui lettere greche e numeri spesso diventato totem, credibilità a un comune sentire sul fatto che qualcosa non vada.
Probabilmente non hanno suscitato lo stesso clamore di Oxfam, ma anche i cattivoni di OCSE e Fondo Monetario Internazionale hanno iniziato ad avere dubbi sul fatto che la disuguaglianza sia davvero un pungolo necessario alla crescita, pubblicando nel 2015 due rapporti che vanno proprio in senso opposto a quanto hanno predicato per anni.
Fantastico, anche i sacerdoti del neoliberalismo hanno capito che un mondo meno diseguale è preferibile perché meno instabile. La lotta alla disuguaglianza è uno dei nuovi Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite. Ora Oxfam presenterà il risultato delle sue ricerche al World Economic Forum proponendo misure belle e condivisibili contro i paradisi fiscali, l’aumento dei salari minimi e servizi di istruzione e sanità gratuiti. Il vento sta cambiando? Forse sì, ma è necessario rimanere vigili e critici.
In primo luogo, è impossibile non chiedersi come il World Social Forum recepirà le proposte di Oxfam visto che i risultati della ricerca ne coinvolgono direttamente e indirettamente molti partecipanti. Con grande maestria, sarebbe sufficiente ribaltare il discorso e spostare l’oggetto dell’attenzione verso questioni quali povertà e disuguaglianze in termini di accesso a istruzione e sanità. Chi può dirsi contrario alla lotta alla povertà? Nessuno, quindi tutti saremo d’accordo nel riconoscere che occorre fare di più per aiutare “i poveri”, chiunque essi siano. Chi può negare istruzione (Di che tipo? Con quali programmi? Non è dato saperlo, neanche ce lo domandiamo) e servizi sanitari a qualcuno?
Ci sentiremmo tutti in colpa, quindi saremo tutti d’accordo nel ribadirne l’importanza, soprattutto per donne e bambini. Siamo tutti paladini delle donne e dei bambini. Staremo a vedere.
In secondo luogo, se consentite un’osservazione accademica, le cause alla radice di questo peggioramento della distribuzione rimangono in buona sostanza inesplorate. OCSE e Fondo Monetario Internazionale ci dicono che se siamo tanto diseguali cresciamo meno e peggio, ma perché siamo diventati così diseguali? E ancora, perché il lieto fine della favola non si è avverato? È sufficiente prendercela con questi 62 miliardari di cui parla Oxfam e tutto si risolverà come per magia?
No, non basta. Perché la disuguaglianza e le sue radici vanno oltre le problematiche legate a chi finisce agli estremi, i troppo poveri della nostra compassione e i troppo ricchi del nostro risentimento. Riflettere sulla disuguaglianza significa riflettere sul nostro stare nella società in relazione agli altri, a tutti gli altri. Significa discutere su quando il merito si trasforma in privilegio e come correggerlo, molto molto prima di prendere la tessera del Club 1%. Significa avere un progetto e una visione sulla sua attuazione perché nessuna stortura si corregge da sé.
Quanto pubblicato da Oxfam deve dunque essere un punto di partenza per l’indignazione, non un punto di arrivo. Sarebbe troppo facile. Sarebbe solo un’altra variante della favola che ancora ci raccontiamo.
(Questo articolo
rappresenta il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)