Rospi e Lumaconi

A Milano, una mostra celebra la figura del grande giornalista sportivo Gianni Brera

di Antonio Marafioti

Di tanti fuoriclasse cantò le gesta che alla fine diventò egli stesso un fuoriclasse. Maestro, per molti padre, della cronaca sportiva contemporanea, Gianni Brera fu, per tutto il corso della sua carriera professionale il campione che tutti i direttori volevano nella propria squadra.

Riuscirono a convincerlo Indro Montanelli ed Eugenio Scalfari che, in tempi e modi diversi, lo portarono a scrivere a Il Giornale e a la Repubblica.

Fallì Paolo Mieli che in qualità di direttore del Corriere della Sera si vide rigettare l’offerta di diventare giornalista sportivo di punta in via Solferino. Era il dicembre 1992 e, per sua stessa ammissione, Brera si sentiva ormai un 73enne un po’ stanco. Quello fu l’ultimo “no” della sua vita: qualche giorno dopo un tragico incidente d’auto avrebbe interrotto la sua vita sulla strada tra Codogno e Casalpusterlengo.

Brera fu conteso perché scriveva tanto, cinque cartelle all’ora la sua media, e perché scriveva bene, uno dei pochi giornalisti studiato dagli epigoni per l’uso dei settenari doppi.

C’era in lui, però, qualcosa in più. In una corrispondenza privata del 6 febbraio 1978, Carlo Cassola gli scrisse: “È questo il suo indiscutibile merito, indipendentemente dalle idee che esprime. Sa che dopo averla letta, mi sembra che non si possa scrivere in altro modo? Mi dura per un bel po’: bisogna che esca dal sortilegio per potermi liberare”.

L’estratto proviene da uno dei dattiloscritti esposti nella mostra documentaria dal titolo Rospi e Lumaconi. Suggestioni dalle carte di Gianni Brera, al laboratorio Marco Formentini di Milano fino al 7 febbrario. La rassegna curata da Anna Lisa Cavazzuti, raccoglie una piccola parte del grande archivio dello scrittore donato dai figli alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.

Sono “carte” raccolte in oltre mezzo secolo di professione considerate dalla Soprintendenza archivistica della Lombardia “di interesse culturale particolarmente importante”. Una produzione enorme che si articolò ben oltre le colonne dei quotidiani e le pagine dei suoi romanzi. Si pensi ai taccuini: storia vuole che Brera fosse noto per usarne uno a partita. In uno di questi si leggono le pagelle del match Urss-Italia valido per le qualificazioni agli Europei di Svezia del 1992.

I migliori in campo, si legge, Baresi, Crippa e Zenga, voto 7. Poi i dattiloscritti e le bozze che conservava spesso in ordine sparso. Montanelli nel ’79 gli scrisse di volerlo vedere già insediato in redazione (cosa che poi avvenne) al suo rientro da quindici giorni di meritate vacanze. Mario Soldati, il 28 dicembre del ’54, ci tenne a fargli sapere che dopo il suo abbandono “ormai la Gazzetta non ha più rose per me”.

La lettera di Alberto Bevilacqua che nell’82 lo chiamò “Maestrone”, sta a pochi centimetri dal pass di un giovanissimo Brera inviato alle Olimpiadi di Londra del 48. Infine il contratto Rai, correva l’anno 1977, che accertava la sua partecipazione di opinionista alla Domenica Sportiva.

Per una serie di fortunate, questa volta, coincidenze, tutto il materiale d’archivio, 63 faldoni e 6 scatole, riuscì a essere interamente trasferito a Milano pochi mesi prima che la potente alluvione del 2015 colpisse, tra gli altri, il comune ligure di Monterosso al Mare, dove Brera aveva casa estiva e custodiva la maggior parte delle sue carte.

Lo racconta la stessa Cavazzuti nel libro Storia di Gianni Brera 1919-1992, edito da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 87 pp., 15 euro. Il volume, presentato in occasione dell’inaugurazione della mostra, narra di un Brera che fu molto altro rispetto al giornalista sportivo.

Gianni Brera fu in primis quel passato remoto tanto amato e racchiuso fra due nomi “gioanbrerafucarlo”. Maestro di cronache calcistiche, il primo, sarto di San Zenone al Po e padre, il secondo. Si presentava così, avvolgendo in due nomi e un verbo la passione per la sua terra, le sue origini contadine, il suo amato Oltrepo. Fu Carlo e fu padano, quando l’aggettivo era ancora incontaminato da squallide connotazioni partitiche.

Uomo in camicia di flanella sul fiume più lungo d’Italia prima ancora di diventare una delle più nobili firme del nostro giornalismo. Imprescindibile il cittadino sanzenonese dal professionista milanese.

Lo diceva, lo ripeteva, usava, per ribadirlo ancora e ancora, finanche una prosa nuova, inedita commistione di italiano dialettizzato o dialetto italianizzato.

Alta la resa: per molti i resoconti calcistici contemporanei nacquero con lui. Fu il primo giornalista a modernizzare il linguaggio al punto tale da raggiungere un equilibrio quasi perfetto tra l’informazione tecnica e la narrazione sportiva vera e propria.

La “sintassi del dettato breriano” non può prescindere dalla sua terra e da tutti i frutti che questa regalava: il suo amore per il Barbaresco ha ispirato gran parte dei suoi articoli, memorabile quello della partecipazione di Gianni Rivera, il suo “abatino”, a una sua cena del giovedì in osteria (uscito sull’Arcimatto del 27 novembre ’63).

Brera era anche la pipa, il rituale del prepartita a San Siro, un distinto uomo in cappotto color cammello, uno approdato al calcio nel ’54 con i mondiali svizzeri, dopo una militanza nell’Atletica Leggera e nel ciclismo. Notevole, a tal proposito, il capitolo “La biografia moltiplicata: Fausto Coppi, il diavolo e Gianni Brera” in cui Gianfranca Lavezzi ripercorre con dovizia di particolari aneddotici e storici l’amicizia fraterna tra il giornalista e il Campionissimo di Castellania.
Infine il rapporto tra il pavese e Milano raccontato da Gino Cervi in cui Brera è cittadino/scrittore, memoria della città di Claudio Orsini, il Gugia di Naso Bugiardo; del discobolo Adolfo Consolini, uno dei suoi miti assoluti; dei giochi col tredicenne Giorgio Strehler ai Giardini di Porta Venezia; delle chiacchierate con i Moratti alla Sei giorni ciclistica del ’61; della prima alla Scala con uno smoking messo solo sei volte.
Franco Contorbia, curatore di questo libro-diario è riuscito a mettere insieme documenti e studi di primo piano rispetto tanto al Brera creatore di una “lingua tutta nuova” quanto al Brera uomo, ripercorso dalle testimonianze di studiosi e nomi storici del giornalismo sportivo come Pilade del Buono, Antonio d’Orrico, Gigi Garanzini, Gilberto Lonardi, Gianni Mura e Giulio Signori.

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