di Giuseppe Provenzano, rassegna stampa e traduzioni Carmen Urselli
Testate giornalistiche e politici del calibro del presidente Usa Obama sono corsi nelle ultime settimane a parlare di una battaglia millenaria che si starebbe svolgendo nel lontano Oriente sotto forma di scontro tra sunniti e sciiti.
Tali semplificazioni traggono forza, più che da dispute teologiche, dalla nostra immaginazione e dal nostro razzismo latente verso un Oriente che ci viene ancora raccontato come qualcosa di lontano ed esotico in cui nulla cambia e la storia è immutabile. Spesso si sente ripetere che “la distanza tra noi e loro è temporale, non geografica”.
Sulla base di questo assunto, è facile scivolare in spiegazioni semplicistiche per cui l’Arabia Saudita condanna a morte l’imam Nimr al-Nimr e l’Iran risponde assaltandone ambasciata e consolato nel proprio paese come prosieguo di uno scontro atemporale.
Un’analisi più contestualizzata non può tralasciare di osservare le diverse reazioni all’esecuzione di al-Nimr da parte dei principali attori politici iraniani. L’evento ha causato un caleidoscopio di reazioni che, sebbene abbiano avuto dei punti in comune tra di loro, hanno evidenziato importanti distinguo, rivelando all’osservatore un dibattito politico vivo, pur costretto entro certi limiti.
L’Iran si avvicina alle elezioni potenzialmente più importanti della sua storia recente. A febbraio i cittadini saranno chiamati a votare contemporaneamente per il rinnovo del Parlamento e del Consiglio Guardiano, che elegge il nuovo Leader Supremo quando questi viene a mancare. Il governo del presidente Rohani si trova davanti a un momento cruciale in cui si spera in una crescita economica in seguito alla rimozione delle sanzioni nucleari. Nel frattempo un nuovo Parlamento con una maggiore presenza di forze moderate a lui vicine potrebbe aiutarlo in molte riforme attualmente bloccate dal Parlamento uscente.
Rohani si trova in questo momento a governare un paese di cui non ha il pieno controllo e in cui le forze conservatrici-rivoluzionarie (i cosiddetti principalisti) stanno cercando di preservare la propria rilevanza.
La notizia dell’esecuzione di al-Nimr arriva in Iran dunque in questo contesto pre-elettorale, e ha fornito occasione ai numerosi attori politici e testate giornalistiche di prender parola per mostrare la propria indignazione, per recriminare e soprattutto per mandare importanti messaggi politici, che infrangono la percezione esterna di una Persia uniforme e pronta a proseguire uno scontro senza quartiere con l’Arabia Saudita.
Gli echi della notizia nell’arena pubblica iraniana
Il giornale Sharq, riformista, ha aperto all’indomani della notizia con un editoriale di Mohammad Ali Sobhani, ex ambasciatore in Libano, che accusa i Sauditi di “soffiare sul fuoco delle differenze religiose”. Pone l’accento sulla violazione dei diritti umani che sarebbe avvenuta nel processo e nella sentenza comminata dal Regno. Dato l’ambito diplomatico, viene comunque reiterato il concetto che solo il dialogo è la soluzione definitiva ai problemi della regione.
Il giornale va all’attacco del chargé d’affairs saudita, che avrebbe evitato le domande dei giornalisti in merito alle recrudescenze settarie che potrebbero scatenarsi in seguito alla pena.
L’ayatollah Hashemi Rafsanjani, una delle figure politiche più importanti della Repubblica islamica e grande elettore “moderato” di Rohani, dà una connotazione più luttuosa, e quindi meno aggressiva, al suo messaggio pubblico. Si limita a porgere le sue condoglianze ai familiari del condannato, all’intera comunità dei fedeli e “agli uomini liberi e a tutti i liberi pensatori della specie umana e in particolare al popolo oppresso d’Arabia”. Essendo un esponente di spicco dell’ala moderata, che vorrebbe una normalizzazione con l’Occidente, e cercando di uscire rafforzato dalle future elezioni, Hashemi cerca quindi di veicolare un messaggio che sia di condanna verso l’esecuzione, evitando di impegnare il paese a rispondere con azioni infiammatorie in un momento delicato in cui l’Iran sta cercando di rientrare in seno alla cosiddetta “comunità internazionale”.
Ali Larijani, potente portavoce del Parlamento e principalista moderato attualmente in avvicinamento a Rohani, ha sottolineato la ferocia dell’azione saudita che , a suo parere, scatenerà un vortice di eventi in cui saranno gli stessi Sauditi a essere risucchiati. Con toni sorprendentemente moderati per un conservatore veterano, ha inoltre dichiarato che questo genere di comportamenti aumenterà l’instabilità della regione e ha auspicato che questo evento risvegli l’Occidente in merito alla palese violazione di diritti umani da parte del regno saudita.
Notevole è anche il messaggio diffuso dall’insieme dei più importanti religiosi che parlano di come la notizia dell’esecuzione dei 47 “innocenti ha affondato il mondo islamico in uno stato di sconforto e sbigottimento”. L’interpretazione ufficiale che forniscono è che tale atto sia stato condotto come vendetta per le sconfitte della casata reale in Iraq, Siria e Yemen, e per fomentare una guerra settaria tra sunniti e sciiti. Sforzo che nell’opinione di questi religiosi fallirà, data la “mancanza di divergenze con i nostri fratelli sunniti, la nostra opposizione è all’empietà”. Vengono inoltre rivolte accuse di educare all’empietà e alla violenza, alimentando casi come ISIS e Boko Haram e infangando quindi il nome dell’Islam.
Mohammad Reza Aref, presidente del Consiglio politiche riformiste, si è espresso dal suo profilo Instagram, in occasione degli auguri di inizio anno ai Cristiani, lamentando “il martirio di al-Nimr, uno dei leader dell’Arabia” e sottolineando come Gesù abbia portato invece un messaggio di convivenza pacifica tra le religioni che non si realizza in Arabia Saudita, al contrario dell’Iran.
Allo spettro politico opposto, troviamo il comunicato rilasciato dai Guardiani della Rivoluzione (sepah-e pasdaran), che definiscono l’esecuzione “martirio”, parte di un complotto “sionista per esacerbare la frammentazione” della comunità dei credenti, che però si rivolterà contro gli stessi responsabili in virtù “dell’intelligenza e unione dei musulmani”. Il tema del martirio è comunque comune a tutta la stampa di ogni colore politico, sottolineando una interpretazione comune del fatto. Essendo una repubblica rivoluzionaria fondata su una teoria legale-religiosa, spesso in Iran il dibattito politico sfrutta il gergo tipico della religione.
Keyhan, prominente giornale principalista, parla senza mezzi termini di martirio e aggiunge che tale atto sia stato avallato dagli Stati Uniti. Inoltre riporta che il leader supremo ayatollah Khamenei ha definito la nuova generazione di governanti sauditi come “giovani senza arte, né parte che hanno preso in mano gli affari della nazione, mettendo in evidenza la ferocia delle loro attitudini, rispetto alla placida ipocrisia del passato”. Questa nuova azione criminale nei confronti di un leader religioso segnerebbe ancora di più il loro allontanamento “dal senno e dalla ragione”. Infine il giornale sottolinea come nella risposta del fratello di al-Nimr si auspichino manifestazioni di protesta, ma di natura pacifica.
L’assalto all’ambasciata saudita di Teheran e al consolato di Mashhad da parte di una folla probabilmente organizzata ha messo in difficoltà il governo di Rohani e causato critiche internazionali. Politicamente si può leggere come un tentativo da parte dei principalisti di sabotare il tentativo dei moderati di aprirsi all’Occidente, creando situazioni sul campo che costringano il governo a posizioni politiche più conservatrici in vista delle prevedibili risposte internazionali.
Sharq mette in prima pagina un report dell’attacco notturno, titolando che Rohani avrebbe “ordinato provvedimenti contro coloro che hanno attaccato l’ambasciata”. E’temad riporta che il presidente avrebbe inoltre dato ordine ai servizi di sicurezza di reprimere tale attacco e che 40 persone sarebbero state arrestate in seguito alle proteste. In un editoriale si denuncia che gli estremisti responsabili di questa azione hanno causato danni agli interessi nazionali con degli atti “privi di ogni logica razionale e legale”.
Mentre il governo iraniano ha preso le distanze da questi atti di protesta violenti, Khamenei all’inizio aveva semplicemente ripetuto che “la mano vendicativa di Dio prenderà i politici sauditi per il collo”. Tuttavia il 20 gennaio ha affermato che sia questi recenti attacchi che quelli che coinvolsero l’ambasciata britannica sotto la precedente amministrazione di Ahmadinejad sono stati “a detrimento del paese e dell’Islam” e la sua disapprovazione per entrambi gli accadimenti.
Iran, giornale governativo, sottolinea che Rohani ha sia condannato con forza l’esecuzione di al-Nimr (dicendo che infiammerà gli scontri settari della regione), sia gli attacchi di Teheran e Mashhad, in quanto “hanno fatto perdere credibilità al sacro ordine della Repubblica Islamica d’Iran”.
Un panorama complesso e pienamente moderno
Questo breve spaccato dei media iraniani mostra una vibrante arena politica. L’immagine dipinta dal presidente Obama di “conflitti che vanno avanti da millenni” risulta fuori luogo, se confrontata con l’effettiva complessità moderna dell’arena politica iraniana.
Il conflitto regionale tra le due potenze sembra essere più affetto dalle logiche di potere nella regione, tra due sistemi di governo che storicamente, fino a cento anni fa, neanche esistevano, piuttosto che da diatribe teologiche e battaglie medievali.
L’Arabia Saudita viene accusata da molti osservatori iraniani di spingere verso l’esternalizzazione di una sua crisi interna, infiammando politicamente la separazione religiosa tra sunniti e sciiti. Gli Iraniani rispondono sottolineando l’unità della comunità dei fedeli del mondo musulmano, e alcuni conservatori reiterando aggressivamente l’accusa di ”empietà” del regno saudita per il suo “servilismo” nei confronti degli Stati Uniti e di Israele.
E’ evidente dunque che nel dibattito interno iraniano emergano argomentazioni che l’ interpretazione orientalistica dell’Iran come “paese dei mullah”non contemplerebbe: invito al dialogo inter-religioso, aperture al ruolo del Cristianesimo, denuncia delle violazioni dei diritti umani, unità della comunità dei credenti contro separazioni e violenza.
L’uso attento di questa varietà di argomentazioni sembra, più che parte di scontri millenari, uno sfruttamento scaltro di diverse interpretazioni della storia e della teologia per avvantaggiare la propria posizione, la propria nazione o la propria fazione nel riordinamento regionale in seguito agli accordi nucleari.