la preoccupazione per un’altra guerra civile
paralizza politicamente il paese
di Susanna Azzaro
Correva l’anno 1998 e l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton annunciava entusiasta la nascita di una «nuova razza di leader africani», a suo parere impegnati ad attuare riforme economiche e democratiche che avrebbero segnato una svolta nella definitiva rottura con il passato dei big men corrotti e violenti. Tra le giovani promesse della politica africana spiccava il nome di Yoweri Museveni, presidente dal 1986 di un Uganda ancora provato dalle bizzarrie del dittatore Idi Amin e che in uno dei suoi discorsi iniziali si faceva notare per le critiche rivolte a quei leader che, non schiodando dalle proprie poltrone, impedivano un turnover democratico ai posti di comando.
Infatti, la coerenza non deve essere il suo punto forte, trent’anni dopo Museveni non solo ancora detiene il potere ma è attualmente il leader africano in carica più longevo, grazie anche alle modifiche apportate dallo stesso Museveni alla costituzione ugandese che non consentiva più di due mandati a presidente. Intenzionato a non mollare l’osso, Museveni è tuttora dato come favorito nelle imminenti elezioni presidenziali e sembra che più che negli eventuali meriti nel gestire il suo ruolo, la motivazione vada ricercata nella paura della popolazione di finire come la Libia o la Siria.
L’eventuale transizione democratica è allettante e auspicabile per molti, ma la preoccupazione che l’incapacità degli successori di Museveni possa portare a un’altra guerra civile paralizza politicamente lo stato africano.
Non c’è dato sapere quale sia oggi l’opinione di Bill Clinton sull’ex enfant prodige della politica africana; quel che è certo è che sua moglie Hillary, a seguito di una visita nel paese africano nel 2015, criticò aspramente l’atteggiamento del presidente ugandese, reo di averla ridicolizzata pubblicamente per la sua presa di posizione in difesa dei diritti degli omosessuali. Proprio Museveni nel 2014 aveva attirato l’attenzione dei media di mezzo mondo per una proposta di legge che prevedeva l’ergastolo per il reato di omosessualità che, in un altro dei suoi famosi discorsi, aveva definito «molto pericolosa».
Non mancava di criticare l’occidente a suo avviso colpevole di voler trascinare i bambini ugandesi in queste pratiche immorali e per la sua abituale inclinazione a voler fare i propri comodi in casa altrui, esternazione quest’ultima tra le poche non discutibili del dittatore africano se non fosse che fu anche grazie ai fondi provenienti dal tanto odiato occidente se l’economia ugandese riuscì a rimettersi in moto. Fu lo stesso Museveni nel 1986 a negoziare con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale un piano di finanziamenti per la ricostruzione delle infrastrutture andate distrutte durante la lunga guerra civile contro Amin. Ulteriori aiuti e la liberalizzazione economica hanno contribuito in passato a conseguire una crescita annuale del 9%, ma l’Uganda di oggi sta attraversando un periodo tutt’altro che roseo: tre ugandesi su dieci vivono sotto la soglia di povertà e il debito estero ha ormai superato i 4 miliardi di dollari.
L’Uganda incarna appieno il caro vecchio paradosso africano. Nonostante l’abbondanza di risorse naturali e la terra estremamente fertile è tra i 21 paesi più poveri al mondo mentre il suo presidente, per incontrare i grandi della terra nella sede delle Nazioni Unite a New York, si sposta con un jet privato.
Nel corso degli anni Museveni ha piazzato molti membri della sua famiglia tra il parlamento e i posti di comando dell’esercito e attualmente, conscio dell’età che avanza, è impegnato a promuovere la futura candidatura come presidente del figlio Muhoozi. Per le imminenti elezioni la vittoria di Museveni padre sembra ormai cosa certa, complici i timori degli elettori ma anche i soliti trucchetti tipici da dittatore che si rispetti, quali l’incarcerazione dei suoi oppositori.
Per le strade di Kampala è impossibile non notare le numerose foto del presidente con un sorriso sornione e il tipico cappello bianco dei contadini sul capo, ma anche quelle dove lo sguardo si fa più austero e la divisa militare da capo dell’esercito prende il posto dell’abbigliamento informale. Se da un lato Museveni ha dimostrato di essere assolutamente in linea con i vecchi big men africani, dall’altro gli Stati Uniti non sono stati da meno nel puntare, come spesso accade, sul cavallo sbagliato e a farne le spese è uno sfortunato popolo il cui futuro è stato nuovamente posticipato.
L’immagine di Yoweri Museveni in apertura è una foto di DFID – UK Department for International Development tratta da Flickr in CC