I dannati della rotta balcanica

Il numero di profughi respinti dai diversi paesi della rotta balcanica è in continuo aumento: privi di possibilità per l’emigrazione legale e incastrati in un limbo

di Francesca Rolandi, foto concessa da Info Park

La stazione di Šid, confine tra Serbia e Croazia, una sera della fine di gennaio. I profughi avvolti in coperte, provati dalle ore trascorse all’aperto, aspettano in fila un treno. Non vanno però in direzione della Croazia, verso l’agognata Germania, ma in senso opposto.

Tornano indietro di un centinaio di chilometri, da dove sono venuti, da Belgrado. Vengono stipati in un vagone separato da quello degli altri passeggeri, scendono alla stazione, un centinaio, alcuni arabi, alcuni probabilmente pakistani.

Sono i dannati della rotta balcanica, coloro che vengono espulsi dal corridoio umanitario creatosi, non appartenendo alle tre nazionalità che vengono fatte passare: siriani, iracheni e afgani. Negli ultimi tempi nella maggior parte dei casi a determinare la provenienza delle persone che arrivano senza documenti o con documenti dubbi sono gli interpreti, ai quali viene delegato un enorme potere decisionale.

Si parla di casi frequenti di errori, anche di persone appartenenti alle tre nazionalità alle quali è consentito il transito respinte. Di afgani parlanti pashtu la cui nazionalità non può essere determinata in mancanza di un traduttore da questa lingua.

Chi viene rispedito indietro si ritrova in un limbo: bloccato in un paese che in alcuni casi non sa neppure quale sia, determinato ad andare avanti, e pronto ad essere respinto anche venti volte, in attesa di trovare un contatto per passare il confine clandestinamente.

Dall’inizio di gennaio i numeri di coloro che vengono respinti dalle autorità croate hanno iniziato ad aumentare, facendo sì che la stazione di Belgrado iniziasse ad essere ripopolata di fantasmi.

Una loro stima, secondo gli aiuti distribuiti dalla Caritas, potrebbe oscillare tra le 300 e le 400 persone, che non hanno un luogo dove alloggiare e che nella maggior parte dei casi dormono sui binari della stazione, avvolti in sacchi a pelo, al parco, mentre i più fortunati si concedono qualche notte negli ostelli-stamberga che sorgono nei palazzi davanti alla stazione.

La sala d’attesa, che serviva come luogo di accoglienza, è stata chiusa il 24 gennaio scorso, con temperature che oscillavano ampiamente sotto lo 0. Non salgono quasi mai nel centro città, sono visibili solo a chi scende tra le stradine sgangherate che portano alla stazione.

La presenza di migranti non si era più vista, se non in dimensioni minori, dall’estate del 2015. Al momento riguarda in gran parte persone che non hanno reali possibilità di emigrazione legale.

Per il governo serbo queste persone non esistono, non sono registrate, nessuno è responsabile di loro. Il premier Aleksandar Vučić, che ha più volte rivolto appelli ad una maggiore cooperazione alle autorità internazionali, ha sinora evitato di menzionare i respinti dalla Croazia che si trovano oggi in territorio serbo.

Il ministero del lavoro e delle questioni sociali e la polizia continuano a oliare il meccanismo del transito, cercando di far defluire i profughi il più velocemente possibile dalle frontiere di Bulgaria e Macedonia fino alla Croazia, ma il castello di carte che è stato costruito con fatica nei mesi precedenti vacilla.

I profughi respinti dalla Croazia, che non hanno possibilità di rientrare nel corridoio ancora aperto al centro della Balkan route, si trovano davanti due vie: quella di chiedere l’asilo in Serbia o di rimanere illegalmente nel paese.

In entrambi i casi si tratta di soluzioni temporanee, pensate per prendere tempo, mentre il piano di lunga prospettiva è sempre lo stesso: andare verso Nord. La prima strada è quella intrapresa da Ahmed, uno studente pakistano con moglie e due bambini. Ha deciso di richiedere l’asilo in Serbia e ora si trova a Krnjača, il centro per richiedenti asilo a una manciata di chilometri da Belgrado.

Ahmed parla un buon inglese, è arrivato da pochi giorni, a piedi con la famiglia, e si è fermato perché le frontiere sono tutte chiuse, dice alzando le spalle, ma non è informato delle procedure per richiedere l’asilo.

Krnjača è diviso da Belgrado dal lungo ponte per Pančevo, che attraversa il Danubio, separando dalla città tutto quello che la città non vuole vedere: il campo profughi, il carcere, il manicomio. Per arrivare al campo dell’Alto commissariato per i rifugiati si devia da una via ad alto scorrimento, infilando una stradina circondata da spazzatura.

Qui vivono fianco a fianco vecchie e nuove vite in fuga: quella di chi è ancora in baracca a più di 20 anni dalle guerre di dissoluzione della ex-Jugoslavia, e quella di chi è appena arrivato ma spera di andare via al più presto.

Una convivenza che potrebbe essere non semplice, sebbene l’amministratore del campo, Rade Ćilić, giuri che i rapporti tra ospiti del campo serbi e stranieri sono ottimi, che non mancano le partite a pallone.

La struttura, che ha 350 posti letto per stranieri, ultimamente ospita in media poco più di 100 profughi al giorno, quasi tutti uomini, pochissimi le donne e i bambini. Sono quelli che “hanno le carte”, cioè la dichiarazione di intenti di chiedere asilo in Serbia.

Ma anche tra loro c’è un turn over altissimo, le persone semplicemente spariscono ed i reali intenzionati a rimanere in Serbia qualora ricevessero l’asilo parrebbero essere meno di una decina e forse solo due con reali possibilità. Il sistema dell’asilo qui non ha mai funzionato, il numero di richieste accettate irrisorio, le prospettive di integrazione nulle.

Poi ci sono gli altri, quelli della stazione, che in via teorica potrebbero richiedere l’asilo in Serbia ma non lo fanno per paura di venire rimandati indietro. E che però non possono entrare nel campo perché, come ripete Ćilić categoricamente, “qua ci sono solo i richiedenti asilo, degli altri non ce ne possiamo occupare noi”.

Lo fanno in parte alcune associazioni della società civile, come Miksalište, un’iniziativa che collabora con le maggiori ong internazionali, e Infopark. I primi offrono cibo, thé e abiti ai migranti in transito, che ormai tanto più in transito non lo sono, racconta una volontaria, “perché si vedono sempre le stesse facce”.

Info Park si occupa di fornire soluzioni pratiche quali l’accesso a internet, le informazioni necessarie per le tappe successive, una presa di corrente per caricare il telefono. Hanno uno stand alla stazione che permette di avere il polso della situazione e cercano di trovare una sistemazione notturna per le persone accampate nel parco.

Gordan Paunović, uno dei fondatori, è convinto che la disorganizzazione sia frutto di una strategia deliberata, quella di inviare un messaggio ai profughi: non venite e non restate in Serbia.

L’unica cosa che appare certa è che nessuno sappia bene cosa fare con i respinti, gli ultimi degli ultimi. Verso i quali traspaiono da molte fonti giudizi negativi: quanto erano amati i siriani della classe media, tanto suscitano ostilità i giovani magrebini spesso aggressivi e portati al bere, secondo i commenti più diffusi.

Le informazioni che si rincorrono sono differenti e alle volte incomplete. Si parla di procedure di riammissione in Macedonia, si parla di tre autobus che ufficiosamente avrebbero accompagnato i profughi di Belgrado al confine con la Romania, dove circa sessanta di loro sarebbero stati arrestati dalle autorità di frontiera.

Si parla di reti estese e riconoscibili di trafficanti e passeur, che però sembrano anche loro messi in crisi dai maggiori controlli. Il grande circo della cooperazione internazionale si è mosso in ritardo e si è occupato più di varie operazioni di protection destinate alle categorie considerate più fragili, come donne e minori, mentre i migranti respinti da più paesi sono stati ancora una volta dimenticati.

Intanto le notizie di violenze della polizia sui profughi, al di fuori della rotta determinata a livello internazionale, arrivano in numero sempre maggiore, in particolare dopo la pubblicazione di un report prodotto dall’associazione Moving Europe, i cui operatori hanno realizzato interviste con i migranti incastrati nel limbo.

Dalle testimonianze risulterebbe che la polizia croata userebbe la violenza a scopo dissuasivo contro i profughi – anche minorenni – a cui in molti casi viene negata la possibilità di proseguire (per esempio a tutti coloro che non dimostrano intenzione di chiedere asilo in Austria o Germania). Costoro verrebbero respinti in Serbia, vedendosi negata anche la possibilità di presentare domanda di asilo in Croazia, come sarebbe loro diritto.

M., un trentenne marocchino, ha detto di provare ogni giorno a passare il confine da quando è stato respinto in Serbia. “La polizia croata opera anche a Šid. È molto violenta. Ho visto una persona presa a calci in faccia, sopra gli occhi, dai poliziotti croati. Lo hanno massacrato”.

Se da una parte sembrano lontani i tempi in cui la polizia serba e croata si faceva fotografare mentre giocava con i piccoli ospiti del campo, i segni premonitori di una prossima interruzione della rotta balcanica iniziano a emergere nelle violenze e nelle violazioni dei diritti dei più disperati. E di nuovo, dopo la regolarizzazione dei flussi nel settembre 2015, sempre più gente percorre la penisola a piedi.