Irene Merli recensice il caso Spotlight. Ma prima di arrivare a leggere sinossi e le sempre puntuali parole di critica, vale la pena di dire poche parole sulle emozioni che questo film ha suscitato e susciterà in molti di noi, di Q Code, e non solo, che ancora crediamo nel giornalismo.
Spotlight è una divisione di inchiesta di un grande giornale. I tempi che la squadra ha a disposizione, lo sentirete e vedrete, sono inimmaginabii per la maggior parte di quello che oggi viene classificato giornalismo. È un ramo particolare di questa nostra professione, il giornalismo di inchiesta. Non diremo ‘il più difficile’, perché la cura si mette anche nello scrivere un tamburino, ma sicuramente una frontiera che disvela l’essenza del giornalismo cane-da-guardia del potere. In questo caso il potere è quello della chiesa e della rete di impunità e omertà che ha stretto con istituzioni, poteri locali, singole personalità di spicco di una comunità.
Il sapore che le atmosfere della vita di redazione mostrano, la passione e la pervicacia dei singoli reporter, le mancanze e anche paure e insufficienze personali che si rivelano nei personaggi con carta e penna, i meccanismi di difesa di una direzione rispetto ai potenti, tutto ciò è il racconto che a noi parla di un presente che rivogliamo, di un futuro che auspichiamo.
Ecco perché a molti giornalisti, e non, ma lasciateci insistere non su una ‘categoria’, ma su una passione, questo film non potrà che piacere. E commuovere, anche, nel senso di una empatia e di una trasmissione di energia contagiosa che ti fa scattare dalla poltrona di un cinema con un rimpianto, da abbandonare al volo, e uno scatto in avanti che ti fa spergiurare ancora una volta che – se fatto bene – quello di trovare, scovare, racontare la verità e la realtà possa essere ancora uno dei più bei mestieri al mondo.
Certo, poi ci sono gli editori che permettono questi tempi per la nostra italica realtà ormai scomparsi nel confezionare una inchiesta. Che non significa solo avere bravi reporter, o spirito di squadra, ma anche una direzione che vuole, che cerca, che rivendica questi spazi, questo giornalismo, la valenza sociale e culturale di un lavoro che diviene addirittura utile perché assolve a una funzione necessaria dentro la società.
Buona lettura. E buona visione.
Q Code Crew
Di Tom McCarthy, con Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel Mc Adams, Stanley Tucci, Liev Schreider, Bill Crudup, John Slattery, Len Cariou, Jamey Sheridan. Nelle sale dal 18 febbraio.
di Irene Merli
Estate 2001. Al Boston Globe arriva da Miami un nuovo direttore, Marty Baron, piuttosto giovane, deciso a riprendere le inchieste su temi scottanti ed ebreo. Il che ha il suo peso e vedremo in fretta perché: Boston è la città più cattolica d’America, dove il vescovo ha l’abitudine di invitare nel suo salotto i direttori del Globe appena insidiati per scambiare chiacchiere, avvertimenti e accordi.
Ma questa volta l’incontro avrà ben poca armonia. Marton, infatti, ha appena rimesso in piena funzione il team investigativo del giornale- lo Spotlight-e il primo caso in cui vuole far scavare è’ quello di un prete che da 30 anni abusa di giovani, senza mai aver subito drastiche iniziative. Baron è addirittura convinto che il vescovo Law sappia tutto, ma abbia fatto quanto in suo potere per insabbiare l’infamante vicenda. Parte così un’inchiesta, portata avanti da quattro reporter di un coraggio cristallino e inscanfibile, che porterà alla luce circa 70 casi di pedofilia tra il clero di Boston e vincerà un premio Pulitzer. Il numero di abusi, sistematicamente coperti dalla Chiesa cattolica per anni, risultò così alto che la comunità cittadina faticava a credervi.
Ma lo scandalo che ne seguì, tra il 2001 e il 2002, travolse la diocesi della capitale del Massachusetts, facendo perdere palazzi, interessi e limousine alle sue gerarchie. Il vescovo Law finì rimosso, e di recente è stato allontanato dalla chiesa romana di Santa Maria Maggiore da Papa Francesco, con il pretesto del raggiungimento degli 80 anni. L’attuale Pontefice, si sa, ha ben altre opinioni che nascondere il male dei pochi per il bene di molti.
Il film di Mc Carthy, costruito sui dati incontrovertibili dell’inchiesta, si riallaccia al filone del cinema civile americano degli anni Settanta, quello delle inchieste che segnarono la vita del Paese. Teso come un thriller, Il caso Spotlight mostra tutta la fatica delle indagini giornalistiche e non fa sconti a nessuno, neppure ai giornalisti stessi.
Alcuni di loro avevano avuto tra le mani un materiale che poteva far scoppiare prima il caso, risparmiando sofferenze ai più’ piccoli, ma non lo ha fatto. Per distrazione, per sottostima, anche perche’ a portare avanti le istanze era un avvocato considerato parziale o interessato. Così come parecchie vittime non avevano denunciato quanto avevano subito per non dover esibire e rivivere le ferite dei loro animi.
Documentatissimo, il film di Mc Carthy non annoia per un attimo e anzi ci riporta a un tempo in cui i giornalisti potevano e volevano svolgere funzioni assai utili alla società’, indagando sugli orrori nonostante collusioni, minacce, pressioni, sparizioni di documenti, discredito sistematico di chi si oppone agli abusi di potere.
I nomi dei quattro reporter che hanno scalfito e di molto l’iceberg, sono Walter Robbinson, Sacha Pfeiffer, Michael Rezendes e Matt Carroll. E a interpretarli sullo schermo c’ è un drappello di attori assolutamente aderenti ai ruoli, da Michael Keaton al solito straordinario Mark Ruffalo, che rendono ancora più realistico ed efficace il film.
Insomma, per chi ancora lo ricorda, siamo dalle parti di “Tutti gli uomini del presidente”, la grande madre delle opere di denuncia civile. E per fortuna, tra tante pellicole commerciali, Hollywood sa anche realizzare un prodotto bello e importante questo, che non per nulla ha mietuto nominations ai Golden Globes e agli Oscar (ben sei).