Dalla cronaca milanese alla situazione internazionale, un’analisi del momento migratorio attuale e delle (carenti) politiche di accoglienza italiane
di Paolo Riva
Alcuni giorni fa a Milano, un cittadino afgano è stato trovato morto in un parco della città. Ha deciso di farla finita, impiccandosi a un’altalena. Le forze dell’ordine lo hanno identificato grazie a un permesso di soggiorno, un documento concesso dallo stato italiano per motivi umanitari, presumibilmente quelli che rendono il paese asiatico ancora un luogo da cui fuggire.
Nel contesto dell’attuale crisi dei migranti può sembrare una notizia tragica, ma non di grande rilevanza. E infatti si è ritagliata giusto qualche lancio di agenzia o poche righe di cronaca. Quando si parla di immigrazione si tende a pensare, solo per citare gli avvenimenti più recenti, alle centinaia di migliaia di persone che fuggono da Aleppo cercando di entrare in Turchia, delle vittime che ancora ogni giorno il mar Egeo conta, dell’Austria che ristabilisce i controlli al Brennero, del trattato di Schengen sempre più a rischio e degli stati del gruppo di Visegrad che vogliono chiudere la rotta Balcanica.
Se poi si guarda al nostro Paese, vengono in mente gli sbarchi già numerosi in questo 2016 oppure i nuovi 50mila posti che il Viminale vorrebbe creare per accogliere i richiedenti asilo, ipotizzando che la situazione internazionale porti per quest’anno a un incremento degli arrivi e, soprattutto, delle domande di asilo.
Eppure, la storia di quel giovane afgano c’entra eccome con i flussi migratori che arrivano in Europa e nel nostro Paese. Da anni, ormai l’attenzione della politica, dei media e dell’opinione pubblica si focalizza sugli arrivi e sulle possibili vie per limitarli o bloccarli. Soprattutto in Italia, ci si concentra sugli sbarchi e sui profughi in transito (siriani ed eritrei, soprattutto), che sembrano un’emergenza, e ci si dimentica di chi resta e delle condizioni in cui si ritrova a vivere. Quanti sono i richiedenti asilo che rimangono esclusi dal fragile sistema di accoglienza italiano pur avendone diritto? Quanti fanno dei percorsi di inclusione inutili o, addirittura, dannosi? Quanti, dopo la permanenza in centri più o meno adatti, finiscono nella marginalità? Per strada? Soli in un parco come è capitato a Milano?
Come sostiene la campagna LasciateCIEntrare, che il 25 febbraio presenterà sul tema un rapporto insieme a Libera e CittadinanzAttiva, la vera emergenza è l’accoglienza.
“Il quadro che abbiamo tratto da questo nostro anno di attività, che ha riguardato CIE, CARA, CAS, Hot spots, centri per Minori stranieri non accompagnati nonché in alcuni casi e per ragione di emergenza, anche SPRAR e centri informali, è a dir poco desolante”, scrivono i promotori dell’iniziativa dopo 12 mesi di monitoraggio in tutta la penisola.
“Il sistema accoglienza in Italia non funziona, è fronte di business, è pensato in maniera tale da non produrre inclusione sociale e mantiene gli ospiti, soprattutto i più vulnerabili, in condizioni di non raggiungere una propria autonomia”.
Ma come si è arrivati a questo punto? A partire dal 2011, con le primavere arabe, il nostro sistema di accoglienza, già limitato, fragile e molto eterogeneo, si è ritrovato a gestire dei numeri crescenti e senza precedenti. E lo ha fatto con risposte emergenziali. L’esempio più lampante è la cosiddetta Emergenza Nord Africa che in moltissimi casi, anche se non in tutti, ha collocato i cittadini, per lo più africani, fuggiti dalla guerra in Libia in luoghi e strutture completamente inadatti, dal residence Ripamonti di Pieve Emanuele a diversi alberghi isolati in alta montagna. Il risultato è che molte delle persone inserite in quel contesto, oggi sono sostanzialmente escluse e indigenti.
L’esperienza, complessivamente negativa, si è chiusa malamente nel 2013, ma ha portato qualche insegnamento, con un aumento dei posti Sprar e una migliore distribuzione di richiedenti asilo e rifugiati a livello regionale.
Nel 2014, però, gli sbarchi hanno toccato il più alto picco della storia recente con 170mila persone circa, diventate oltre 150mila lo scorso anno. E il risultato è che oggi delle 105.248 presenze nel sistema di accoglienza, più di 77mila sono registrate in strutture provvisorie e straordinarie, che non fanno ben sperare per quanto riguarda il futuro inserimento sociale dei loro ospiti.
Ci sono poi da considerare altri fattori. Il primo è la composizione dei flussi. Nel 2014, gli arrivi hanno raggiunto un numero record, ma la maggioranza delle persone giunte via mare proveniva da Siria ed Eritrea e ha quindi proseguito il suo viaggio verso il Nord Europa. Nel 2015 e anche quest’anno, invece, le nazionalità africane sono quelle prevalenti tra i migranti, che molto più spesso scelgono (o sono costretti a scegliere) l’Italia, facendo così crescere il numero delle domande di asilo. La pressione sul sistema di accoglienza, quindi, aumenta e i venti di chiusura che soffiano in Europa non sembrano annunciare nessuna inversione di tendenza quanto piuttosto l’obbligo di identificazione per un numero di persone sempre maggiore a fronte di una procedura di ricollocamento tra gli stati Ue assolutamente inefficace.
Il secondo è il numero dei cosiddetti migranti economici che, negli hotspot, vengono sommariamente selezionati, quindi, esclusi dal sistema di accoglienza e, nella maggior parte dei casi, abbandonati sul territorio italiano irregolarmente, come ha spiegato di recente la Commissione Diritti umani del Senato. Questa prassi, che l’Ue vuole venga presto messo a pieno regime anche in Grecia, da un lato, allegerisce cinicamente il sistema di accoglienza, ma dall’altro, complice il cattivo funzionamento dei Cie e la lentezza dei rimpatri, non fa che accrescere il numero delle persone indigenti, vulnerabili ed escluse. In alcuni casi senza documenti, in altri con regolare permesso di soggiorno. Proprio come quel ragazzo afgano.
L’immagine in apertura è una foto di Fabio Rava tratta da Flickr in CC.