che stupisce per eleganza di sceneggiatura e di regia
di Irene Merli
IL CLUB, di Pablo Larrain, con Alfredo Castro, Roberto Farias, Antonia Zegers, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, Jaime Vadell, Marcelo Alonso. Orso d’argento- Gran Premio della regia alla Berlinale 2015. Nelle sale da domani
«Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre» (Genesi, 1:14). Il nuovo film di Pablo Larrain (Tony Manero, No, Post Mortem) si apre con questo versetto biblico e non a caso. Il regista cileno vuole introdurci in un mondo in cui la separazione tra luce e tenebre non è mai avvenuta, dove la notte è eterna. Anche se le prime, bellissime scene girate in controluce non ci fanno capire subito cosa e chi incontreremo.
Alcuni uomini e una donna fanno correre un cane su una lunga spiaggia australe. Parlano, scherzano: lo stanno allenando per una corsa locale. Poi tornano in una casa di legno, ben lontana dal piccolo centro sul mare, dove li aspetta un altro paio di uomini per cenare. E qui capiamo che in quella abitazione isolata, alla fine del mondo, in realtà vivono quattro preti e una suora dal sorriso mite e il cuore di tenebra.
Ognuno dei sacerdoti è li perché ha compiuto un reato e invece di andare in carcere è stato esiliato, sotto il controllo della suora, per cancellare le colpe commesse. La Chiesa li ha scoperti, allontanati ma non denunciati: meglio che nessuna sappia, l’istituzione ne sarebbe sporcata. La gente della casa per il mondo deve sparire, in cambio dell’impunità.
Eppure c’è chi ha fatto commercio di neonati strappati a famiglie povere, chi ha confessato e benedetto i gerarchi del regime di Pinochet, chi ha avuto relazioni “contro natura” e chi ha problemi con la bottiglia. È questo il singolare club di Larrain. E nella vita comunitaria i preti dispersi devono seguire regole precise: per esempio possono uscire soltanto in certe ore e da soli, non possono comunicare con chi sta fuori, maneggiare soldi o cellulare, né adottare pratiche di autoflagellazione o di piacere autoindotto. La suora spiega questo e altro anche al quinto arrivato della casa, visibilmente tormentato, che porta il suo passato nella loro fragile routine con una violenza inaspettata.
Padre Lazcano, infatti, è stato seguito fin li da Sandokan, un vagabondo abusato da lui da piccolo, che urla per ore davanti all’abitazione del club tutto il dolore, l’orrore di ciò’ che ha vissuto. E la sua è una nenia infinita di grande crudezza. Sfinito dalla colpa, il sacerdote non regge e si toglie la vita di fronte alla sua vittima, innescando così l’indagine di un giovane gesuita psicologo deciso a fare chiarezza sul suicidio e a chiudere quel buen retiro.
Ma i presunti uomini di Dio anche davanti a lui non mostrano pentimento. Anzi, compieranno un’altra serie di aberrazioni, seguiteranno a mentire con consumata reiterazione pur di continuare la loro piccola vita amorale in quella casa sull’orlo dell’abisso.
Così l’uomo che come Bergoglio vuole il rinnovamento della fede, colto, sensibile, umile, si rende conto di non poter compiere il suo mandato, perché chiudere la casa porterebbe a galla verità che danneggerebbero la sua amatissima Chiesa. E come ha detto il regista, «la nuova e la vecchia Chiesa hanno un nemico in comune: la stampa. La temono più’ dell’inferno». Larrain ha girato un altro film duro, bellissimo, senza nulla di prevedibile (non lo è’ neppure la figura della vittima), che stupisce per eleganza di sceneggiatura e di regia, ma anche per l’approccio diretto e libero verso un tema a dir poco drammatico.
Tutte le scene sono avvolte in una penombra bluastra, in cui i personaggi sembrano muoversi come se si crogiolassero nella protezione dell’oscurità senza nessuna nostalgia della luce. Il silenzio, la luce velata, li lascia infatti vivere senza castigo e senza espiazione, non li obbliga ad affrontare la realtà dei loro crimini, nasconde la gretta assenza di misericordia. Larrain non giudica i suoi personaggi, ma ce li mostra come sono, tutti. E tanto basta. Speriamo solo che Il club resti nelle sale quanto merita.