nell’Istria rossa degli anni ’70, attraverso le testimonianze
e la cultura pop
di Francesca Rolandi
Vedo rosso, un documentario di Sabrina Benussi, è una testimonianza autobiografica dell’infanzia dell’autrice, trascorsa nell’Istria jugoslava degli anni ’70 e ’80, dove la comunità italiana seguiva i rituali della Jugoslavia socialista.
La storia inizia con quella della famiglia di Sabrina che nelle diverse generazioni ha cambiato molte cittadinanze – austroungarica, italiana e jugoslava – senza mai trasferirsi.
Come diceva la nonna, “non serve andare all’estero, è l’estero che viene qua da noi”. A rendere viva l’atmosfera dell’epoca sono soprattutto le testimonianze degli attori dell’epoca, la maestra – che doveva essere rigorosamente “compagna maestra”, un concetto che però spesso oscillava tra i due estremi di “signora maestra” e “compagna” – e quelle degli ex bambini che, insieme all’autrice, avevano trascorso un’infanzia da pionieri irregimentati nelle associazioni jugoslave.
Quello che ne emerge è una regione che guardava con brama di occidente all’Italia: gli istriani la frequentavano spesso, vi si recavano a fare acquisti, ne seguivano radio e televisione, in particolare Carosello.
Questo li rendeva particolarmente esposti all’influenza italiana e in alcuni casi li fece anche mediatori rispetto agli abitanti di altre zone della federazione jugoslava.
Il documentario, utilizzando materiale della televisione in lingua italiana Tele Capodistria, presenta anche alcuni dei prodotti ibridi dell’incontro tra queste due culture, a molteplici livelli: la terribile – e temibile – cover in italiano di Mirko Cetinski dell’inno non ufficiale “Jugoslavijo”, anticipatrice del turbofolk, un’intervista a Goran Bregović, allora cantante del famoso gruppo Bijelo Dugme, che, intervistato, esordisce in italiano ma passa subito allo “jugoslavo”, l’intervista a Demetrios Stratos, che racconta di avere in tasca un progetto sperimentale, ma sa che non sarà facile.
E poi Sylva Koscina che fu invitata a colazione da Tito dopo aver interpretato la battaglia sulla Sutjeska e che si diceva convinta del bene che aveva portato alla Jugoslavia, “nonostante la durezza dell’inizio”.
E ancora l’ossessione del nemico esterno alla base delle esercitazioni militari che coinvolgevano anche i ragazzi delle scuole, il trattamento riservato agli sportivi jugoslavi dai colleghi degli altri paesi dell’est che li trattavano come traditori, le prepotenze sui ragazzi italiani ad opera della maggioranza croata…
Una serie di spunti che vengono solo accennati e che rimangono aperti per ulteriori raccolte di testimonianze della vita sul confine, con il confine e vicino al confine.