La storia di un Noor Zaman, rifugiato afghano che ha imparato ad essere un sarto nella provincia
di Nangarhar ed è riuscito a farlo anche allo Stadera
testi di Carlotta Dazzi
foto di Céline Volonterio
Da Nangarhar, provincia dell’Afghanistan a nord-est di Kabul, alle case popolari del quartiere Stadera di Milano il cammino è lungo e per nulla scontato. Soprattutto se hai 25 anni, sei in fuga e ti lasci alle spalle scuole rase al suolo, case bruciate, devastazione e tante, troppe, violenze. Eppure Noor Zaman, da 16 mesi in Italia dopo aver valicato i confini di Iran, Turchia, Grecia e Serbia con il cuore pieno di paura, è riuscito ad arrivare a Milano ancora pieno di speranze e voglia di ricominciare in quella che per lui si è rivelata una città accogliente.
Le prime luci in fondo al tunnel Noor le ha intraviste al Centro don Orione, che di fatto lo ha tolto dalla strada offrendogli un tetto e pasti caldi.
E soprattutto lo ha sottratto all’insostenibile limbo in cui vive, a volte purtroppo per anni, la maggior parte dei richiedenti asilo in Italia in attesa che le domande vengano accolte e che la nostra elefantiaca macchina burocratica schiacci le leve del caso.
Un aiuto fondamentale per Noor è venuto dal Naga, l’associazione di volontari milanesi nata nel 1987 con lo scopo di tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri, che lo ha inserito nel bellissimo progetto “Parla come cuci”, ideato dalle creative donne del SerpicaLab, un luogo del quartiere Stadera in cui il collettivo Serpica Naro ha messo radici e dove, dall’ottobre del 2013, organizza corsi di cucito, workshop e molte altre attività. Una prima sede fissa, questa, per le Serpica girls dopo anni di nomadismo per la città, l’Italia, l’Europa e il mondo. Forse, anche per questo, con Noor è stato “amore a prima vista”.
Lui cresciuto tra la scuola e la bottega di un sarto nelle strade di Nangarhar dove ha imparato a cucire a mano abiti su misura e kurta (la tradizionale camiciona lunga con il collo orientale). Loro con la grinta necessaria per far svoltare partendo dal suo lavoro di sarto questo ragazzo che, in un caleidoscopio di immagini, ti mostra una vita scappata via troppo in fretta mentre ti parla del suo Afghanistan dove ha lasciato tre fratelli, una sorella, mamma e papà.
Metro a nastro al collo, un quadernino per appuntare misure, modello e stoffa scelta, matita all’orecchio, Noor ha fatto la gioia dei molti milanesi che, ancora una volta, hanno dimostrato senso di accoglienza rispondendo alla simpatica chiamata per “Nato con la camicia“. Lanciata con un post sulla pagina Facebook del laboratorio, impegnato da sempre sul fronte del precariato e dell’integrazione di stranieri e profughi, a proposta è diventata virale. A un prezzo trasparente e più che accessibile, Noor ha preso ordini per cucire kurta che lo terranno impegnato, realizzato e sorridente per un bel po’ e certamente non si fermerà allo Stadera.
Il tè sorseggiato assieme, chiacchierando in un italiano ancora da rafforzare ma dolce come quello dei bambini che rincuorati da chi li protegge sorridono al mondo, ha scaldato non solo la giornata, per altro già di per sé bellissima.
Progetti come questi sono nati per camminare con le proprie gambe. E sono da emulare. Perché la differenza per un rifugiato la fanno proprio l’inserimento nel mondo del lavoro e la rete umana che gli si forma attorno.