di Paola Caridi
È la città in cui si prega tre volte Dio in tre lingue diverse, tre modi diversi, tre templi diversi. È la città in cui si sogna di tornare, l’anno prossimo. È la città da cui si è partiti per convertire il mondo. E quella dalla quale si è ascesi per vedere il paradiso e ascoltare la Parola. È la città che è entrata dentro molti di noi come una parola, un mito, un sogno.
Come si coniuga, però, il mito con la città reale? La Gerusalemme celeste con la molto più terrena città in conflitto, ieri, oggi, novecento anni fa?
Abbiamo pensato di raccontarla, Gerusalemme, come una nessuna e centomila. La città che non esiste, se non nei desideri, e quella che permea e sconvolge la vita dei suoi dimenticati abitanti. È un cammino di avvicinamento a un appuntamento singolare, la rappresentazione di Cafè Jerusalem al Teatro Menotti di Milano, il prossimo 3 aprile.
Il testo l’ho scritto io, ed è stato il mio modo di vomitare ciò che di Gerusalemme non ero riuscita a dire. A nessuno, o quasi. In un caffè dimesso, Nura racconta la sua città, calata dentro una Storia più grande dei suoi abitanti.
E racconta la sua vita, il suo amore nascosto e (quasi) impossibile per Moshe. Racconta Musa e le sue umiliazioni. Racconta l’incapacità (spesso maschile) di incrociare sguardi, e dunque inquinare il proprio. Carla Peirolero e Pino Petruzzelli (che cura la regia) danno corpo e anima ai personaggi, mentre si alza la musica di chi, come in ogni caffè arabo che si rispetti, suona per il pubblico degli avventori. I Radiodervish, dunque, sono nella scena e nell’azione. Perché Gerusalemme è fatta dei suoi suoni intrecciati.
Q Code Mag ci sostiene, in questo cammino, in un modo particolare e intrigante. Vorrebbe raccontarla, Gerusalemme, componendo un mosaico. Le tessere saranno le diverse narrazioni di chi vorrà riflettere su una città che è ora persino più di una metafora e di un archetipo. Comincio io, a raccontare. O almeno, a mettervi a parte di alcune immagini e di altrettante domande.
C’era una penitenza, a Roma. C’era quando io ero piccola. Gli amichetti si ponevano in due file, una di fronte all’altra, e il malcapitato era costretto a passare in mezzo alle due ali di bambini pronti a colpire. Il penitente incrociava le mani sul petto e si batteva, ripetendo a ritmo cadenzato la stessa frase.
“Vado a Gerusalemme senza ridere e senza piangere”. E i bambini, lungo questa imberbe via dolorosa, cercavano di far ridere o piangere il loro coetaneo, già sconfitto nel gioco. Facce spaventose, o al contrario ridicole, linguacce, urla, il peggio veniva mostrato per costringere il penitente a sbagliare. Sbagliare, tornare indietro e ricominciare.
Non ci avevo mai pensato prima, ma forse è proprio questa la ragione per la quale dei bambini di 6, 7 anni, dei bambini delle elementari usavano quella frase così fantasiosa e al tempo stesso così piena di richiami storici e religiosi. “Vado a Gerusalemme”. Ci vado da pellegrino. E ci vado “senza ridere e senza piangere”. Doveva essere un piccolo calvario. La via dolorosa in cui l’astante, la gente del pubblico non parteggia per lo sconfitto. Anzi, lo dileggia. Come successe a Gesù Cristo, per chi ci crede.
Poi, più nulla. Di Gerusalemme non ho saputo nulla, dopo aver abbandonato per più di qualche anno chiesa, catechismi, sacerdoti e suore. Gerusalemme, lontanissima. Senza alcun peso, per me. Lontana da qualsiasi programma di vita. E persino da qualsiasi curiosità.
Gerusalemme mi è stata imposta dalla vita. Un giorno, era l’agosto del 2003, sono arrivata a Gerusalemme per fare la giornalista. Lavorare e viverci. E la città che ha fatto irruzione della mia esistenza era altro, rispetto al mito, alle frasi delle penitenze, ai continui richiami nelle omelie e nelle trame architettoniche delle chiese capitoline. Una città reale, sotto l’ombra di un mito plurimillenario che la ricopre, e la rende invisibile a tutti. Al mondo.
L’ho sopportata malamente, Gerusalemme. Non ne ho mai colto il sapore spirituale. L’ho trovata, al contrario, terribilmente prosaica. Una città crudele, senza pietà verso i suoi abitanti. Spartana, senza alcun fronzolo, dunque senza neanche un briciolo di pietà. Scolpita nella pietra, non solo la fede, anche la vita reale. Tracciata nelle pietre la via dolorosa di allora, e il calvario contemporaneo.
Poi, quando me ne sono andata dopo dieci anni di vita e lavoro, quell’astio si è pian piano sedato. Ho guardato Gerusalemme da lontano, come si osserva un panorama. Ho ricordato. Ricordato i passi sulle pietre. I volti degli uomini e delle donne di Gerusalemme. Ricordato, soprattutto, l’aria tersa, la luce accecante che copre la città.
La domanda è rimasta lì, dov’è rimasta per dieci anni.
“Perché proprio a Gerusalemme? Proprio a Gerusalemme, dentro le Mura. Se non tutto, molto, e per tanti. Perché lì, a Gerusalemme, non è tersa solo l’aria, ma i contorni dell’animo umano. Perché dunque gli ipocriti sono nitidamente ipocriti, e i coraggiosi altrettanto? Perché non c’è bisogno di spiegare la ragione del gesto del Samaritano, a Gerusalemme, ed è invece impossibile farlo comprendere qui?”.
Nessuna risposta. Come non c’è risposta a quel “Vado a Gerusalemme senza ridere e senza piangere”. Tante riflessioni, però, sì. Gerusalemme costringe a pensare, a prendere posizione, a distinguere il bene dal male, e il necessario dall’inutile. Soprattutto, Gerusalemme costringe ad aver meno paura. O ad avere pietà della paura. Empatia per chi è nella polvere. Disprezzo per chi usa e abusa il potere. Mai riuscirò a ripagare Gerusalemme per questo dono. La risposta, forse, è qui.