di richiedenti asilo. Ma Bruxelles teme che la situazione peggiori. E ha ripristinato i controlli alla frontiera
testo e foto di Paolo Riva, da Zeebrugge
Calais e la sua giungla sono a un centinaio chilometri a ovest. Dunkerque e il campo della Grand Synthe a poco più di 70. E il confine con la Francia, ora presidiato dalle forze di polizia belga, a circa 50. Eppure, a Zeebrugge, sul mare del Nord, nel piazzale di fronte alla chiesa di Stella Maris regna la tranquillità il sabato mattina. Nonostante questa cittadina delle Fiandre occidentali abbia di recente conquistato i titoli dei media, le tensioni legate all’immigrazione, poi riesplose in questa parte d’Europa con lo sgombero di parte dell’insediamento di Calais, non si avvertono ancora.
Anzi, almeno in apparenza, l’assistenza, che viene fornita ad alcune decine di richiedenti asilo in transito proprio intorno a questa chiesa, sembra filare liscia e senza problemi. Si tratta prevalentemente di iraniani, diretti verso il Regno Unito. Mentre un gruppo di loro fuma e si rade su una delle panchine del club locale di bocce, Didier Franckx, uno dei volontari che li aiuta, si dà da fare per tenere lo spazio circostante ordinato e pulito, come del resto è tutta questa parte di Zeebrugge, quella più turistica. Loro vengono dalla zona di Shiraz e, in un farsi mischiato a qualche vocabolo inglese e francese, spiegano di aver lasciato l’Iran perché cristiani e quindi perseguitati. Lo ripetono per l’ennesima volta, come gli è capitato spesso negli ultimi giorni di fronte a taccuini e telecamere. Lui, invece, è fiammingo, abita qui da 35 anni e, in francese, spiega di aver deciso di dare una mano a queste persone ora che è in pensione, dopo qualche decennio di lavoro al porto.
Anche per lui, non si tratta della prima intervista. Ne ha rilasciate parecchie dopo che il governatore delle Fiandre Occidentali ha invitato la popolazione a non dare da mangiare ai richiedenti asilo nel timore che aumentino.
Lui, il suo amico Ronny e altri volontari fanno esattamente questo, “a pranzo e cena, da sette settimane”, precisa con orgoglio. “E puliamo anche la zona perché altrimenti gli abitanti che già protestano lo farebbero ancora più forte e non ci consentirebbero più nemmeno di distribuire il cibo”. “Qui – continua – sono decisamente più quelli che si lamentano di quelli che aiutano. Abito di fronte alla chiesa e conosco quasi tutti, ma adesso tante gente quando passa gira la faccia dall’altra parte e fa finta di non vedermi. Pensa che alcuni dicono persino in giro che sono un trafficante e che, in realtà, non aiuto queste persone ma con loro ci guadagno”.
I richiedenti asilo al porto ci vanno da soli, cercando di sgattaiolare nei container e nei camion da caricare sulle navi in partenza per il Regno Unito, in particolare verso Hull. Oppure si rivolgono ai trafficanti, quelli veri, che fanno pagare dai tre ai seimila euro a viaggio, come ha provato un’inchiesta della magistratura belga che, in ottobre, ha condannato una dozzina di passeurs albanesi.
Mentre attendono il passaggio giusto, come a Calais o a Patrasso, trovano ripari di fortuna, sulla spiaggia, sulle dune sabbiose che seguono la costa, in case abbandonate o in costruzione. E da qualche settimana anche nella chiesa di Stella Maris, grazie alla decisione di padre Fernand Marechal di aprirla nelle sere più fredde. “Sono persone che hanno bisogno di aiuto e gliel’abbiamo dato”, spiega il sacerdote. Parla con un tono pacato, in netto contrasto con le dichiarazioni del sindaco della vicina Knokke, che ha proposto di creare per gli stranieri in transito una prigione “come Guantanamo, ma senza torture”.
Quello che è stato aperto davvero il 19 febbraio è invece un centro di supporto medico e legale nei locali della casa parrocchiale di padre Fernand, accanto ad un’altra chiesa, ancor più vicina al porto rispetto a quella di Stella Maris. L’iniziativa, che è portata avanti insieme a Medecins du Monde e ad altre organizzazioni locali, in due settimane, ha visto l’accesso di 17 persone. Dopodiché il sindaco di Brugge (di cui Zeebrugge fa parte) e il governatore della regione hanno deciso di chiuderla temporaneamente.
“Eppure a Zeebrugge – riflette padre Fernand senza fare polemiche – i rifugiati ci sono da oltre un decennio. Sono sempre passati da qui in piccoli gruppi, come quelli che aiutiamo ora”.In effetti, sono anni che il porto viene utilizzato da migranti e trafficanti. Un documento del Consiglio d’Europa spiega che, già nel 2001, all’interno dell’area portuale erano stati fermati 3.093 migranti. Nell’agosto del 2014, invece, le autorità dello scalo di Tillbury, in Inghilterra, hanno trovato il cadavere di un uomo in un container partito da Zeebrugge, mentre è del 2000 il tragico ritrovamento a Dover di 58 cittadini cinesi morti soffocati all’interno di un camion trasportato su di un traghetto partito dal Belgio.
Ora, ad essere cambiato, è il contesto europeo e internazionale. Le autorità centrali belghe così come quelle locali fiamminghe temono che “l’emergenza” che vivono Calais e, in parte, Dunkerque in Francia possa spostarsi oltre confine con la chiusura della “giungla” e, pertanto, sono convinte che qualsiasi attività di sostegno a migranti e richiedenti asilo sia un fattore di ulteriore attrazione.
Quindi, non solo limitano queste ultime, ma dal 24 febbraio hanno anche reintrodotto i controlli alla frontiera, nell’ambito di un’operazione che ha schierato 300 uomini, elicotteri e unità a cavallo. Risultato? In meno di una settimana, alla vigilia dello sgombero parziale del campo di Calais, la polizia belga ha rispedito in Francia 619 cittadini stranieri e arrestato 16 presunti trafficanti. E ieri Le Soir ha dato l’annuncio che il governo ha deciso un prolungamento dei controlli per altri dieci giorni.
Anche a Zeebrugge le pattuglie delle forze dell’ordine sono una presenza ben visibile. Auto e furgoni fanno avanti e indietro sull’ordinato lungo mare battuto dal forte vento. Attirano gli sguardi perplessi e preoccupati dei primissimi villeggianti, raccolgono le indicazioni di alcuni all’operai al lavoro in una casa per vacanze e perlustrano, questa volta senza risultato, un edificio abbandonato poco distante. Una coppia di poliziotti a cavallo, invece, sale tra la vegetazione delle dune sabbiose a ridosso della spiaggia, sulla quale spicca una macchia di colore verde acceso. È un sacco a pelo con accanto un paio di scarponcini: stanotte qualcuno ha dormito qui.
Potrebbe essere benissimo uno dei giovani iraniani che, nel frattempo, sul piazzale della chiesa scherza con Didier, intento a terminare le sue pulizie. Gli chiede un paio di scarpe per uno dei suoi compagni. “Numero 40”, spiega un po’ in inglese e un po’ a gesti. Il volontario risponde che, al momento, non hanno più nulla. “Dovrebbe arrivare un camion con altri vestiti in giornata. Quando tornare per la cena potrebbero esserci. Altrimenti provate a chiedere… alla polizia” dice ridendo. I ragazzi capiscono e ridono anche loro.
Sanno che, qualora venissero fermati, gli agenti chiederebbero loro se vogliono fare domanda di asilo politico in Belgio. Al loro rifiuto, quasi scontato, verrebbero rilasciati con un foglio di via che, passati alcuni giorni, li renderebbe irregolari. Ma non per questo meno determinati a raggiungere il Regno Unito. Ad alcuni di loro è già capitato.
Anche Didier ormai conosce la procedura. “La legge, per loro, non è giusta”, riflette. Poi guarda avanti: “Questo è solo l’antipasto”, dice alludendo al numero di persone che potrebbero arrivare in futuro.
“E qui, fra poche settimane inizia la stagione turistica”. Non solo. Domenica 6 marzo, in città, è in programma una manifestazione della sezione fiamminga di Pegida, il movimento di estrema destra nato in Germania. Parola d’ordine? “Fermare l’invasione di Zeebrugge”.