di Valeria Nicoletti
In bicicletta, sorriso fiero, un bacio alla folla, così Christiane Taubira abbandonava la carica di Ministro della Giustizia, lo scorso 27 gennaio. Classe 1952, originaria della Guyana francese, animo battagliero, la sua reputazione, soprattutto fuori dai confini francesi, è legata alla legge sul matrimonio per tutti, approvata nel 2013, che consente anche alle coppie omosessuali di sposarsi e adottare un bambino.
Oratrice magistrale, tra gli ultimi personaggi politici francesi a incarnare una sinistra senza compromessi, in Francia non sono in pochi ad aver ironizzato che, con la sua partenza, seguita alla divergenza con Hollande sulla revoca della nazionalità, e dopo un discusso rimpasto, che ha visto Jean-Jacques Urvoas prendere il suo posto, al potere resta un governo interamente di destra.
Si intitola Murmures à la jeunesse, il libro che l’ex Ministro ha scritto alla fine dell’anno, pubblicato appena cinque giorni dopo le sue dimissioni, per le edizioni Philippe Rey. Un libro ideato e concepito in gran segreto, stampato in Spagna per evitare ogni fuga di notizie e recapitato sulla scrivania di Hollande solo il 23 gennaio.
Una sorta di pamphlet, poco meno di cento pagine, indirizzato ai più giovani, come un canto del cigno, da parte di un ex Ministro che così comunica probabilmente il suo addio alle scene politiche, annunciando di non voler figurare tra la rosa dei candidati per le elezioni del 2017, né per quelle seguenti del 2022.
C’è chi ricorda il precedente del 2002, quando i suoi pochi voti impedirono al candidato socialista Lionel Jospin l’accesso al secondo turno per le presidenziali, c’è chi pensa che farsi valere solo con la forza delle proprie idee, come una voce fuori campo, contribuisca a raggiungere un maggiore risultato.
Infine, ed è la tesi maggioritaria, Taubira semplicemente non ha alcuna intenzione di catapultare la sinistra in una situazione ancora più disastrosa, lasciando in pace il Presidente, senza inutili rancori, anzi confermando la stima per il capo dello stato, ma con qualche sassolino nella scarpa in meno, nascosto tra le pagine del suo libro.
Murmures, come bisbiglio, perché “come a teatro, quando si sussurra, si viene ascoltati meglio e, in un momento di generale frastuono, è necessario abbassare i toni”. Alla gioventù, perché, Taubira lo chiarisce sin da subito, “è un dovere generazionale quello di rischiarare la strada per chi verrà dopo, consentire di scegliere i colori e lo spessore del proprio presente” e, per usare le parole di uno suoi autori preferiti, Frantz Fanon, “ogni generazione ha il dovere, in una condizione di relativa opacità, di scoprire la propria missione, compierla o tradirla”.
Sì, perché liberare la strada non significa tracciarla, e queste poche pagine di Taubira non hanno alcun proposito se non quello di rischiarare il cammino, mettere a fuoco i punti che più le stanno a cuore, come l’identità francese, la tradizione dell’accoglienza e della libertà della Francia, l’apertura del paese, la tolleranza, l’uguaglianza di diritti per tutti. Un libro scritto quasi di getto, scritto con il suo stile ben noto, metafore audaci, citazioni, spunti dalla letteratura e la filosofia francese, Edouard Glissant, Albert Camus, dove Taubira entra subito nel vivo della questione: la minaccia terrorista è il pericolo più grave della contemporaneità.
Una sorta di minaccia tentacolare e oscura, impossibile da controllare, che l’ex Ministro cerca di esaminare, analizzandone le origini, la radicalizzazione dei più giovani, le cause, i luoghi, i tempi e i modi di un fenomeno non più identificabile come un nemico esterno, ma come una deviazione, un’anomalia, cresciuta in seno al paese stesso.
Il suo è quasi un poema in prosa, composto in nome della sua battaglia contro l’estensione della revoca della nazionalità e soprattutto contro la modifica della costituzione: “un testo che da sempre ci permette di sapere chi siamo, soprattutto in un momento di smarrimento”, dichiara, “rivedere la Costituzione, che è ciò che di più profondo è stato scritto, equivale a dire che nulla è eterno, nulla vale per sempre”.
Un prezzo troppo alto da pagare per un provvedimento che, agli occhi dello stesso primo ministro Manuel Valls, ha un valore solo simbolico e non una vera efficacia nello scoraggiare o dissuadere eventuali atti terroristici. D’altronde, chi è pronto a farsi saltare in aria, si preoccuperà di quello che ci sarà scritto sul proprio passaporto? Facendo un passo indietro, la comparsa della revoca della nazionalità come pena risale al 1848, applicata a quei francesi che, nonostante la sua abolizione, continuavano a praticare la schiavitù.
Durante la prima guerra mondiale, era punito con la perdita della nazionalità chi aveva fatto prova di tradimento contro lo stato francese, mentre durante il secondo conflitto, e in particolare sotto il regime di Vichy, vittima della denaturalizzazione sono state più di 15.000 persone, soprattutto ebrei. Con l’estensione della revoca della nazionalità, oggi il governo Valls può colpire solo chi è in possesso di due nazionalità, di cui quella francese acquisita da meno di dieci anni (o 15 per casi particolari) e che abbia agito contro gli interessi della nazione o commesso un atto terrorista.
Una pena che spesso non comporta automaticamente l’espulsione dal paese. Un’azione che dal 1973 è stata applicata pochissime volte, per la precisione 26, di cui 13 per atti terroristici. La modifica dell’articolo 34 della Costituzione francese permette di estendere la revoca della nazionalità non solo a chi ha acquisito la cittadinanza francese, ma anche a chi nasce francese e ha due nazionalità differenti. Un provvedimento che alla fine è stato approvato dal governo, con una maggioranza risicata, ma supportata da un forte consenso cittadino.
“La Francia subisce una virata a destra”, dichiara l’ex ministro in una recente intervista, “ma perché la sinistra sceglie di seguirla?” In mancanza di valide risposte, Taubira, dopo orazioni memorabili, battaglie spesso in solitaria, esercita la sua resistenza, con una lettera di dimissioni, senza tuttavia rinunciare a esprimere idee e vegliare sulle sorti del paese, o per lo meno delle sue generazioni più giovani.
“Restiamo coscienti del pericolo, ma rifiutiamoci di capitolare intellettualmente”, ribadisce, rifiutiamo di minare la Repubblica alle sue fondamenta, nonostante questa oggi sia più capace di escludere che d’integrare. “Nel paese di Cartesio, facciamo appello alla ragione, nel paese di Montaigne, torniamo a chiederci chi siamo, senza portare sulle spalle il peso del mondo ma senza esonerarci dagli effetti delle nostre scelte geopolitiche, delle fonti discutibili del nostro benessere”.
L’ex Ministro argomenta rigorosamente la completa inefficacia della revoca della nazionalità, ma tiene fede al suo presidente: “mi vengono i brividi al solo pensiero di un altro capo dello stato al momento degli attentati”, ma non arretra: “le mie dimissioni, al confronto di quanto potrebbe accadere se ammettessimo una tale modifica, sono derisorie: mi auguro il fallimento di questa legge”. Una determinazione che tuttavia si concede un momento di incertezza: e se fosse tanto rumore per nulla? Non sarebbe meglio lasciar perdere?
“Non sono sicura di niente”, si risponde, “ma so che non potrei concedermi di dormire qualora allentassi le redini della mia coscienza”. E infine, una speranza, un augurio per il proprio paese da parte di una personalità che sembra essere tra le poche colonne rimaste in piedi della sinistra francese, l’unica ad aver portato avanti un confronto, e uno scontro, senza compromessi con la destra, tra i rarissimi a potersi dire ancora portavoce degli ideali della gauche, progresso, libertà, tolleranza: “ricordiamoci di appartenere a qualcosa di forte, coriaceo, che non ci si affaccia sulla vita con gli occhi bassi e, prima che si sfaldi, impegniamoci per una condivisione della bellezza. Un diritto trascurato, eppure vitale”.