Parole in esilio/Won

Won, dal coreano: accettare quasi a stento la rinuncia di un’illusione

di Isidora Tesic

Won, dal coreano: accettare quasi a stento la rinuncia di un’illusione

Si confessa la pioggia, serena, su una terra senza voce. E il vento si cerca la gioia, nel cederle il passo. Mei sorride, fitta, con lo sguardo scoperto, mentre cammina sola verso il Santuario. Ascolta la professione di vita, che pronuncia la città, nel rituale di un giorno imperfetto. A tratti, il vento la scuote con meraviglia piana. E le abbandona sulla curva del viso, una carezza.

Giunta all’incrocio, gira a destra, senza esitare. Ma nel volteggio dei fianchi conserva, per un breve istante, la direzione non scelta. Che, Mei lo sa, ad ogni cammino non eletto si deve un pensiero d’amore. Perché non creda, il destino, che si fugge da lui.

Davanti agli occhi si allenta il lungo viale di rami e respiri. La conduce al Santuario dei combattenti. Ed in lontananza, crudele, appeso contro il cielo, lo vede.

A Mei si tacciono i passi mentre lo guarda, pesante, come una pietra tombale d’orizzonte. Esita, ad un bivio che nessuno le può scorgere. Poi, d’un tratto certa, volge la nuca al suo richiamo. ‘Non si cammina incontro al ricordo dei morti’ pensa, mentre chiaro il cielo le canta una piccola vittoria contro il rimpianto. ‘Il Libro delle Anime li ricorda come morti con onore. Per la patria e l’imperatore. Poco però è l’onore di chi muore avendo accettato morti e dolori d’altri.’

E vorrebbe allontanarsi, perché peggiore dell’oblio è la memoria riscritta. Quella che nasconde i respinti. Ma le sorge, inevitabile, il pensiero di lei.

’Conosco poco la sua storia. Solo quelle strette parole concesse da mia madre. Che da figlia, l’ha sempre giudicata,’ pensa Mei, mentre si incammina verso il fiume. ’Ma quale giudizio si può assegnare ad una donna che accetta l’esilio per un amore nato disperato in terra di nessuno. Unica espiazione della disfatta dell’uomo, davanti allo strazio. Soltanto che la salvezza di una sola non assolve il dolore di tutte le altre. Donne di conforto, le avevano poi chiamate. Perché in guerra tutti avevano diritto al conforto, tranne le donne.’

E il peso del loro male senza testimoni la stringe. Poi scorge, sul bordo dello sguardo, la riva.
Al vento in piena, cedono pallidi i fiori di ciliegio. E disamorati dei rami, s’accompagnano, mai soli, alla pioggia che li spoglia. Sotto, nell’ombra fulgida, figli di uno stupore ogni volta inatteso, si assottigliano di tenerezza, i volti. E Mei sente il vento farsi suo respiro. Disabitata da tristezza, li guarda, a ciascuno consegnando un atto d’amore improvviso.

‘Vieni, guarda

i veri fiori

di questo mondo doloroso.’
Si recita, chiudendo il libro di Basho.

‘Ed io guardo l’uomo,’ pensa. ‘Vincibile e infelice, sempre sul limitare di una sconfitta. Indossa quieto le sue miserie ed i suoi splendori. E s’abbandona per incuria alla resa quotidiana.
Ma poco basta a ridargli germoglio. Che un palpito d’amore ad ogni uomo è pioggia lenta, che porta rifugio.

Lo si veste di compassione. Gli si concede peccato, perché poi la coscienza insegna redenzione. Si assolve uno sguardo fisso su sé, perché poi nasce la meraviglia, ad allargarlo verso altri. Tutto si compie, purché non si schiuda spento, il suo desiderio d’oltre cielo.

Ma per meglio dare l’amore, si deve essere soli. Perché solo così lo si conosce senza attesa di ritorno. Mia madre l’ha sempre detta mia illusione. Ma, in realtà, è pace con un mio destino.’
Mei sorride leggera, mentre sul palmo le fiorisce bianco, un volo portato dal vento. ‘E’ la prima volta da vent’anni che li guardo lontano da Seul. Ma tra fiori, non ci sono differenze.’

In un istante il tempo si compatta. Mei guarda l’orologio. Si riconosce, come ogni volta, un ritardo inaspettato. L’attendono. Si costringe nella giusta direzione ed affretta il fiato. Sotto i passi le rimangono, disertati, attimi di seminata bellezza.

All’arrivo, varca la porta. A sorpresa, la cinge un buio denso, irrespirato. Nuda, contro altri giorni, le si svela la sua solitudine. E mentre sta per illudersi i polsi e dirla benvenuta, si rammenda d’un tratto, la luce.

Davanti a lei la vita si riprende. Hanno tante parole, per curarsi la solitudine, i suoi coetanei. Però pochi si guariscono. Li guarda, con il fondo sopito del petto, dove affonda gracile la punta del cuore, pronto ad accoglierli. Che la solitudine è un’ospite equa.

Si affretta a raggiungerli, quando una voce la salva. ‘Mei, aspetta, ti presento…L.’ Lei si volta, rivelata, verso il nome. Guarda l’ombra bella che gli abbaglia le labbra. E d’istinto difende, con la mano, un sorriso disarmato. Ma lo sguardo di lui, richiama una tregua. E nel nodo della sua stretta, Mei sente annunciarsi, invincibile, un presagio d’amore. ‘La solitudine si arrende facilmente’, pensa, alleviata.