È negli odori e nel chiasso, in chi ti passa accanto, in chi ti urta e poi si scusa chiamandoti “habibi”, nell’irrefrenabile vita che si muove davanti ai tuoi occhi, nelle tue orecchie, nelle tue narici, o nella vertigine di silenzio di qualche vicolo nascosto scoperto per caso. Lì è la Gerusalemme predicata nei testi sacri. Lì è che il Cielo tocca la Terra.
tratto dal blog Macondo Express
di Valeria Cagnazzo
A Gerusalemme ci sei nato, ci sei cresciuto, ci hai imparato a parlare, a camminare e a far l’amore, anche se non l’hai mai vista. Gerusalemme c’era prima di te e prima del mondo, e resisterà dopo di te e dopo il cielo, nella sua consistenza di melograno, nella sua essenza d’arancia matura, è lei a mormorartelo con voce materna. Al punto da intitolarle l’opera della sua vita, lo sapeva bene Tasso, che aveva capito tutto, tanto da diventare pazzo. In qualsiasi strada di Gerusalemme tu ti trovi, in qualunque ora del giorno o della notte, da solo o nella folla, non avrai altra percezione che quella d’ esser lì da sempre, nei tuoi panni o in quelli di un passante, di una pietra o di un pezzo di pane, e di non aver altra patria nel mondo all’infuori di Yerushalaim, di Al-Quds.
Son tanti e diversi i modi per guardare Gerusalemme, come quelli per sognare la neve, ma da ogni squarcio riconoscerai la tua casa.
La puoi scoprire sul far del giorno, quando i gradoni della città vecchia sono immense distese di pietra pronte solo ad accogliere i tuoi anfibi, e la quiete vibrante dell’alba appena passata porta dentro tracce di ansia, promesse e di orina di gatti. Dagli angoli li vedi venir fuori, prima due, poi cinque, poi venti, lontano ricordo di felini, ossuti e minuti, madri e figli sembran cuccioli della stessa età, lo sguardo indugiante e colpevole dell’odore che impregna l’aria. Si muovono senza fretta, sembrano incapaci di provare spavento, in molti ti allungano il collo per avere una carezza. Tornano poi nei rispettivi rifugi, ai loro tesori di avanzi e ai loro laghi dorati, ma senza fretta, con la lentezza della città che pigramente si sveglia e inizia a emetter luce. La Via Dolorosa riacquista allora il decoro e la mestizia dei suoi toni marmorei; resiste ancora per poco un retaggio di voci passate, di sangue e vino versati nella notte appena trascorsa, in una lite o un matrimonio la sera prima o chissà quanti secoli fa, c’è ovunque come un segreto che le imposte chiuse si trattengono. Per indagare non c’è tempo, il giorno fa presto a prender forma, e le strade in penombra sono già un viavai di scolari in divisa blu.
Puoi cercarla, la tua Gerusalemme, nei luoghi sacri, in preda alla devozione più sincera o al dovere classico del turista cristiano, guidato da qualche ricordo confuso di un Catechismo mandato giù a memoria e di cui ora ricordi solo i colori della copertina.
Sarà una marcia a tappe forzate e fiduciose, in ognuna la speranza dell’illuminazione, dell’estasi, della fede ritrovata. Il Muro del Pianto, che riconoscerai dall’alto, senza osare avvicinarti, imparando in silenzio gli strani movimenti del culto, sui talloni avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro e poi scrollata di testa. La chiesa del Santo Sepolcro, su cui Pagliara avrà realizzato sicuramente tanti dei suoi canonici servizi di Pasqua (di certo i meglio riusciti, perché non inerenti ciò che vi è fuori e la politica estera), e a cui anche Giacobbo, hai visto uno spot passare in tv, ha dedicato una delle sue importanti inchieste. Nessuna catarsi neanche lì: per uno spirito ostinatamente disfattista di cui non puoi che rimproverarti, pensi solo al fatto che la pietra dell’unzione originale è stata rimossa da tempo, e che quella che le donne di fronte a te baciano e su cui si strofinano i fazzoletti risale su per giù all’800; che il sepolcro di Cristo era identico a quello di mille altri poveri cristi morti come lui, e che a scegliere quale fosse il suo tanto da dedicargli una cappella è stato solo qualche “illuminato”, chissà da cosa; anche la possibilità remota di avere un attimo di spiritualità sulla sua tomba vuota ti viene rubata, un sacerdote ortodosso ti grida alle spalle che il tuo turno è finito e che la fila si sta allungando a causa tua.
Non riusciresti, d’altronde, a pregare, per via del sottofondo di click di macchine fotografiche, e anche perché, ammettiamolo, ti distrai più volte per spiare, ridendo, una coppia di strani credenti- lui nerboruto e fiero della sua camicia sbottonata sul petto in pieno inverno, lei in equilibrio instabile su due tacchi a spillo, che il solo stare in piedi le vale quanto un pellegrinaggio da Roma o da Santiago- che si fan foto ardite in pose da night club nel cuore della Chiesa. Esci fuori sospirando: neanche il Golgota te l’aspettavi così, e da fedele, o anche, facciamo, da ministro del turismo, avresti preferito vederlo come il monticello immaginato, magari con piantate tre croci di legno stilizzate. Né troverai la santità sognata nella cappella dell’ascensione di Maria, fuori dalle mura, o in qualche Via Crucis improvvisata per strada.
Semplicemente, a Gerusalemme la spiritualità non la si cerca su di una mappa della città, o, per esser più chiari, non la si cerca, e basta.
Tutto ciò che è sacro nella città vecchia non sta in un monumento né è indicato su di una guida. È negli odori e nel chiasso, in chi ti passa accanto, in chi ti urta e poi si scusa chiamandoti “habibi”, nell’irrefrenabile vita che si muove davanti ai tuoi occhi, nelle tue orecchie, nelle tue narici, o nella vertigine di silenzio di qualche vicolo nascosto scoperto per caso. Lì è la Gerusalemme predicata nei testi sacri. Lì è che il Cielo tocca la Terra.
Puoi attraversare Gerusalemme sul suo ventre scoperto, la spianata delle Moschee. Non sarà facile arrivarci, tutto ciò che è per i Palestinesi ha un check point di soldati israeliani, fila e controllo estenuanti per te che li subirai soltanto un giorno e che i fedeli son costretti ad accettare ogni mattina in nome di Allah.
Non avendo oggetti sacri (sempre a causa della razionalità che spesso ti è di troppo) da lasciare prima del gabbiotto di controllo, pena il divieto di accesso alla spianata, non ti rimane che tirar fuori dalla borsa e abbandonare un volantino con la foto di Marwan Barghouti. Ma l’attesa vale più che la pena, vale la bellezza. La Gerusalemme tra le due moschee è quella più intima e sincera, il silenzio domina l’ampia area seminascosta al cielo da un’ombra verde, forse di cipressi.
Vasi antichi, pietre diroccate, circondano la moschea antica, Al-Quds, che guarda in rispettosa devozione alla Moschea della Roccia, dominatrice della Palestina. Sulla sua cupola dorata, l’ultima orma di Maometto verso l’Alto, la costante impronta dell’indice di Dio che sfiora la terra.
La preghiera ti tace nel cuore, le parole la svuoterebbero, tutta Gerusalemme ti guarda, le colline ti abbagliano di dubbi e riflessi di sole. Si perpetuano i versetti religiosi nei movimenti, nei passi incerti tra le pietre, nelle donne accanto a un muro che imparano a leggere, negli anziani seduti in cerchio che ridendo ti lanciano benedizioni con cenni della mano. Nulla smuove la spianata, Gerusalemme la culla come il suo tesoro più vero. Capita, a volte, che i coloni vi entrino per sfregio, dietro l’accompagnamento di due soldati, rituale provocazione imparata dal divo Sharon, minaccia che anche ad Allah ruberanno il trono, per trasferirlo al crudele Yahveh che a immagine e somiglianza si sono creati. Dal pavimento, dalla terra, da ogni voce d’uomo e di donna, si solleva allora, forte, coraggioso, un accorato “Allah O’ Akhbar”, “Allah è grande”. Dal cuore s’alza anche la tua voce, per unirsi al coro dell’indignazione. “Allah O’ Akhbar”. “Non nominare il nome di Dio invano”. Tutti gli dei che toccano la cupola lo sanno: non c’è motivo più giusto per acclamarli.
Puoi affacciarti su Gerusalemme dal tetto delle casette in centro. È negli odori e nel chiasso, in chi ti passa accanto, in chi ti urta e poi si scusa chiamandoti “habibi”, nell’irrefrenabile vita che si muove davanti ai tuoi occhi, nelle tue orecchie, nelle tue narici, o nella vertigine di silenzio di qualche vicolo nascosto scoperto per caso.
Lì è la Gerusalemme predicata nei testi sacri. Lì è che il Cielo tocca la Terra. tutto un odore d’aranci e gelsomini, o forse no. I gatti non scompaiono come la brina all’alba. La quotidianità della città lì quasi ti commuove. Qualche mano di donna attenta dispone ogni giorno calzoni, maglie, braghe e calzini in un rigoroso ordine di grandezza, su dei fili alti e isolati sopra agli orti che paiono irraggiungibili. Sui terrazzi, a cui arrivi per cunicoli bui, per scale di pietra con gradini più stretti della punta del tuo piede, travolto dall’odore di rosmarino e spezie che dalle cucine annuncia l’arrivo del mezzogiorno, mentre dietro a tende e lenzuola stese ad asciugare cerchi di scorgere qualche brandello di azzurro o di verde, entri a far parte di quel Dio delle piccole cose di cui hai letto, e nella tua minutezza, e nella piccolezza di ogni varco che ti porta a dominare la città, diventi un passo breve, un sospiro di stupore, un altro, magrissimo gatto. Tra gli odori acri della piccola vita, anche sui tetti, nell’intimità primitiva delle case, l’occupazione arriva, al contrario di te a passi pesanti. Due usci vicini, separati da un braccio, due usci gemelli: una famiglia palestinese da una parte, un gruppo di ragazzi israeliani, futuri militari, dall’altra. Vite lontane separate da un muro di cartone: il calore del nido e il frastuono dell’occupante, mandato lì a disturbare, a intimidire, a tener sveglio l’isolato con assordante musica occidentale. E’ anche all’altezza di un’ingombrante bandiera bianca a stella azzurra che puoi, dolorosamente, vedere Gerusalemme.
Si può accarezzare con lo sguardo la sinuosa forma di una Gerusalemme distesa, il seno dorato avvolto nella foschia, dall’alto del monte degli ulivi. Dalla sommità raggiunta per un lungo percorso in salita, tra i campi in cui Gesù venne a pregare e fu poi tradito, la città sembra distante, fragile da poterla tenere in una mano.
Ai tuoi piedi, un vasto cimitero abusivo: gli Israeliani, che avevano avuto in affitto questo terreno per un periodo limitato di tempo, al termine della scadenza non l’hanno restituito, e hanno continuato a costruire tombe. Dal canto loro, ti viene spiegato, i musulmani non disseppellirebbero mai dei morti, sarebbe peccato, e piuttosto accettano che anch’essi, i defunti, siano resi complici dell’occupazione. Da lassù, sotto alle prime stelle, coi suoi occhi di orizzonte trafitto, la città ti interroga, ti osserva. E’ la Gerusalemme dei tuoi rimpianti, è l’immagine che non vuoi sciupare coi rimorsi che allora ricacci indietro, è la madre che cerca promesse, che ti chiede un sorriso, e tu non glielo sai dare. Lì Gerusalemme ti bacia mille volte il cuore, ti domanda lacrime e se le conserva tra le labbra.
Puoi salutare Gerusalemme, insieme all’anno passato e all’orina dei gatti, davanti alla porta di Damasco, quando si fa sera, ed è tutto un abbassarsi di serrande e uno scomparire di bancarelle.
La città umana si dilegua senza far rumore, e il primo vento della notte è scosso dalla voce del muezzin: dai minareti risuona un richiamo che vibra sotto ai piedi di chi clandestinamente lasciava la strada per cercare un focolare, e deve invece inchiodare e sostare, immobile. Sembra un rimprovero, come una nostalgia improvvisa di un’altra giornata appena persa, come una verità in una lingua sconosciuta che si ascolta col sorriso, stringendosi nel cappotto.
Son questi e mille altri ancora i momenti del giorno e le prospettive da cui guardare la città, ma la Gerusalemme in cui ho trovato me stessa si trova nel mercato nella città vecchia, nel cuore del mattino. La vita lì ti danza intorno, e tutta l’umanità si incontra, in una Babele di esistenze e storie. Tutto è un passa e un fai passare, con attenzione ma senza fretta. Il garzone porta cinquanta, o cento, o forse duecento? pezzi di pane sulle spalle, e, attento che non gliene cada nessuno, sorride a chi gli fa una foto. Dietro di lui corre un carretto, dei mattoni vi saltano dentro a ogni pietra su cui inciampa, la folla come un mare si apre per farlo passare per la strada stretta. Cedi il passo poi ai sacerdoti con i loro breviari, e dietro di loro agli ebrei ortodossi che paion sempre andar di corsa. Ecco un altro garzone a passo svelto, questo con un piatto di rame porta tre bicchieri di tè, le foglie di salvia nell’acqua bollente sono immobili, e ti pungono il naso col loro caldo profumo. Ad ogni lato, mentre il sole di ogni stagione scalda i ciottoli e le grandi pietre della Roma antica, in tutte le lingue del mondo ti verrà offerto un succo di frutta. Melograno e arancia, gocce rosse e gialle di Gerusalemme, le bucce lucide, i semi nascosti tra due grandi mani spesse in una conchiglia vegetale, su tavolini improvvisati, su banconi alla portata delle mani dei bambini. Tra la via delle spezie, vendute come rimedi curativi di ogni male, quella della carne, quella delle stoffe, quella meno popolata dell’oro, ho trovato un crocevia di vita che nessuna cartina potrà riprodurre. Nel cuore più caldo di Gerusalemme, ho capito di essere a casa mia. Di esser nata lì, e d’esserci cresciuta, d’averci imparato a parlare, camminare, far l’amore, e vi ho scoperto gli altri, i sogni che muovono i popoli, e il mio nome. Lì, in quel vociare infinito, in quell’agrume aperto al cielo di Palestina, ho raggiunto la mia Gerusalemme dell’anima: il baricentro del mio corpo, della Terra, e non solo.
*Volutamente evitati riferimenti a Gerusalemme ovest.
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