La decisione dell’Europarlamento di importare per due anni 35.000 tonnellate aggiuntive di olio d’oliva tunisino senza dazio ha acceso le polemiche. Tra favorevoli e contrari, alcune precisazioni sono necessarie.
di Clara Capelli
In Italia e in Europa si torna a parlare di Tunisia. Il 10 marzo il Parlamento europeo ha autorizzato per il 2016 e il 2017 un’estensione per 35.000 tonnellate l’anno della quota di olio tunisino che può essere importato in Unione Europea senza dazi, come regolato dall’Accordo di Partenariato del 1995.
Gli scudi si sono levati contro l’olio tunisino, gridando all’invasione, al rischio di contraffazioni e di danni ai produttori locali, non sono in Italia, ma anche in Spagna e Grecia. Dall’altra parte si è risposto che tale misura aiuterebbe un’economia in difficoltà che vive un delicato processo di transizione democratica, duramente colpita da tre attacchi terroristici nel 2015 che hanno piegato il settore turistico.
Come sarebbe sempre doveroso, una riflessione informata e dai toni pacati si rende necessaria per rimettere tutto in prospettiva e smorzare toni troppo apocalittici o eccessivamente e ingenuamente ottimisti.
È bene ribadire come prima cosa che l’Unione Europea e nello specifico l’Italia sono già importatori di olio d’oliva, perché la produzione locale non riesce a soddisfare la domanda interna. La Tunisia rappresenta da decenni un partner commerciale importante in questo senso: l’Accordo di Partenariato permette infatti al Paese di esportare 56.700 tonnellate di olio d’oliva nell’Unione Europea senza dazio.
La decisione europea, maturata nel mese di settembre 2015, è invece una misura temporanea della durata di due anni, che si inserisce in un periodo assai difficile per l’economia tunisina e nel quadro dei negoziati per l’accordo di libero scambio ALECA/DCFTA tra Unione Europea e Tunisia. Inoltre, la produzione europea di olio d’oliva attraversa attualmente un momento di difficoltà, in particolare per il calo di produzione causato tra l’Italia e la Spagna dalla Xylella fastidiosa.
Già nel 2015, infatti, l’export tunisino di olio d’oliva è aumentato considerevolmente toccando le 300.000 tonnellate, di cui oltre il 90% diretto verso l’Unione Europea. Quindi, se la matematica non è un’opinione, ben oltre la quota fissata dall’Accordo di Partenariato e da quella consentita per i prossimi due anni.
Alla luce di queste riflessioni, parlare di “invasione” di olio tunisino risulta decisamente inappropriato, tanto più che le dinamiche economiche che regolano tale mercato rispondono a logiche per cui 35.000 tonnellate aggiuntive senza dazio rappresentano solo uno dei tanti elementi in gioco, elementi che si inseriscono tra l’altro in una relazione economica pluridecennale.
Se è vero che questa misura potrebbe rischiare di abbassare il prezzo dell’olio a danno dei produttori europei (è da valutare il peso che queste 35.000 tonnellate annue avrebbero su un totale di circa 135.000 tonnellate di importazioni previste per il 2016 nel territorio EU e su una produzione europea media di oltre due milioni di tonnellate), occorre riconoscere che il quadro è molto più complesso e articolato di come è stato descritto dalla maggior parte dei media.
Molti dubbi sono stati inoltre sollevati sulla possibilità di “contraffazioni” degli oli che arrivano sulle tavole dei consumatori italiani. Innanzitutto, l’olio d’oliva tunisino non è un prodotto di bassa qualità, né tanto meno tossico, ma è tradizionalmente utilizzato nel territorio dell’Unione Europea per miscele con oli di altra origine.
La progressiva concentrazione del mercato, con un numero contenuto di aziende che controllano le principali etichette e gran parte della produzione ha creato negli anni una forte tensione con i piccoli produttori locali, costretti ad affrontare la competizione con oli di origine straniera oppure oli di infima qualità.
Un problema serissimo, ma che trascende largamente dalla misura presa per l’olio tunisino.
Il mercato italiano è stato per altro recentemente scosso da uno scandalo proprio a tale proposito, con importanti marchi come Bertolli, Carapelli e Sasso (tutti e tre di proprietà della spagnola Deoleo) scoperti usare oli di qualità inferiore rispetto a quella dichiarata, non solo tunisini ma anche greci, spagnoli e marocchini.
La regolamentazione europea prevede in ogni caso che l’etichetta di ciascun prodotto indichi la provenienza di tutte le componenti, proprio per informare e tutelare il consumatore.
Di nuovo, la misura presa in merito all’olio d’oliva tunisino non si tradurrà in un’invasione di veleni. Non si tratta infatti né di invasione, né di un prodotto tossico e i legittimi problemi sollevati dai produttori locali non hanno come causa unica e primaria la competizione tunisina, ma risiedono piuttosto in un sistema che – come in altri settori dell’economia capitalista – finiscono per portare a una corsa alla compressione dei prezzi in cui i più deboli soccombono.
Problemi che comunque potrebbero essere quanto meni leniti con politiche commerciali e di educazione alimentare volte a una promozione della qualità e alla conquista di nuove fette di mercato, nei Paesi UE settentrionali così come in quelli extra-UE.
Tuttavia, è importante ridimensionare gli entusiasmi di chi ritiene questa decisione europea il preludio di una nuova era della strategia dell’”aiutiamoli a casa loro”.
Una misura di due anni non è strategica, è un palliativo.
In aggiunta a ciò, sebbene l’export di olio d’oliva rappresenti circa il 5 percento di tutta l’attività esportativa tunisina, la crescita delle vendite potrà contribuire a un qualche aumento del PIL, ma è ragionevole dubitare che ciò possa essere un motore per la creazione di impiego e il miglioramento delle condizioni salariali, vero cuore dei problemi economici del Paese.
La Tunisia necessita di molto di più che qualche concessione commerciale di corto respiro che la pone per altro in competizione con altri produttori che non se la passano tendenzialmente benissimo; politiche per lo sviluppo del mercato interno sono fondamentali, così come un ripensamento di quale è stato il modello di apertura verso l’estero del Paese che l’ha tradizionalmente resa un fornitore di beni e servizi di poco prezzo senza alcuna valorizzazione del proprio potenziale. A cominciare dall’olio d’oliva.