Questo è la seconda di una serie di storie che raccontano di un viaggio, o meglio, della continuazione di un percorso iniziato un anno fa e che aspira a conoscere le sfumature di un paese, il Messico. Non solo spiagge e siti archeologici, quindi, ma nemmeno narcos e corruzione. Vi racconterò eterni viaggi in bus, di periferie di città, della Selva Lacandona, delle vite dei migranti che rischiano tutto per un sogno e molto altro.
di Camilla Camilli
“Quando parlo con te dimentico tutto quello che mi è successo e quello che c’è li fuori”.
Non sono mai stata in Centro America, ma le storie che mi vengono raccontate mi avvicinano un po’ di più a quei paesi. Sono a Ixtepec, ma anche nel Salvador, mentre cerco di sopravvivere alla violenza indiscriminata delle maras, sono in Honduras o in Guatemala mentre provo a mantenere la mia famiglia e fuggire dagli strascichi lasciati da colpi di stato e guerre civili.
El Salvador, Honduras, Guatemala e Nicaragua. Sono questi i paesi da cui scappano i migranti, paesi ormai troppo instabili in cui la sopravvivenza è l’unico chiodo fisso, dove se vuoi lavorare o vedere i tuoi figli crescere ti devi adeguare alle leggi della strada.
Di sicuro non puoi fare affidamento sullo Stato. “Nelle tv locali i politici dicono che va tutto bene, ma la gente sa che non è così. Sa che può morire mentre va a fare la spesa”
“Sono scappato da San Salvador perché non potevo andare nel quartiere di fianco al mio. Mi avrebbero ucciso”. David non fa parte di alcuna mara, pandilla o altri gruppi criminali. Non gli piace fumare e non beve quasi mai.
Ha lasciato casa sua quando aveva 11 anni, per lavorare, e da quel momento ha sempre vissuto solo. Aveva anche un lavoro, ma ormai non sopportava più l’idea di non potersi muovere nella sua città. “Non serve che tu faccia parte di qualche Mara. Basta che tu vada in una colonia che non è la tua per farti ammazzare”. Nel Salvador si può morire per un semplice scambio di persona.
O si può morire dopo che per anni si è servito il proprio paese come militare. Come è capitato a Miguel e Jaime, arrivati qui a un giorno di distanza. Quasi dieci anni al servizio dell’esercito per entrambi, che però non servono a nulla di fronte alla paura di ritornare nel loro paese e al timore che possa succedere qualcosa alle loro spose e ai loro figli che si trovano ancora lì.
L’esercito, cosi come la polizia, sono tra i bersagli preferiti dei membri delle maras. Una vendetta per aver arrestato e imprigionato i loro compagni. Arrivare qui e iniziare la procedura per la richiesta di rifugio è un piccolo passo verso una nuova vita.
Tutto questo trova lo spazio e il modo di essere ascoltato mentre si condivide una zuppa di fagioli a pranzo, mentre si passeggia lungo la via del treno o nella oficina, il luogo dove la vita dei migranti che risiedono nell’albergue ha inizio.
Gestita dall’instancabile Madre Firmina, qui i nuovi arrivati ricevono l’accoglienza e le informazioni necessarie dai volontari. Una foto e il proprio nome nel registro, insieme alla provenienza. Maggiori informazioni sulla persona, la sua storia e il suo cammino vengono raccolte in un secondo momento, con una piccola intervista, poi inserite in un database condiviso unicamente tra le case per migranti messicane.
Nessun tipo di dato trapela da qui, né per la Polizia né per i funzionari dell’immigrazione, molto spesso tra coloro che commettono aggressioni e a scapito dei migranti. Un modo per capire come evolve il fenomeno migratorio e una forma di tutela per i migranti, che se vogliono possono denunciare i furti e le violenze subite.
Ma anche una forma di tutela per i volontari. Infatti, molto spesso capita che tra i migranti si infiltrino polleros o narcotrafficanti in cerca delle loro future vittime. L’intervista può quindi essere un ottimo metodo per capire chi abbiamo di fronte e come poterlo aiutare.
Gli attacchi, infatti, non sono rivolti solo ai migranti, ma molto spesso anche a chi si occupa delle loro protezione. Nel corso degli anni le case per migranti si sono dotate di mezzi di sicurezza.
Anche qui a Hermanos en el Camino sono successi episodi spiacevoli soprattutto nei confronti di padre Solalinde, punto di riferimento per la tutela dei diritti dei migranti in Messico. “Lavoro qui da cinque anni”, mi dice Antonio, agente della polizia statale di Oaxaca, mentre con la sua auto mi accompagna in centro.
“Capita che ci siano tensioni con gli stessi migranti che a volte non apprezzano la nostra presenza qui”. Negli anni però si è rivelata utile e pronta ad agire in caso di emergenza.
Capita, a volte, mentre si sta seduti la sera ad ascoltare le storie di chi passa da qui, di sentire un fischio in lontananza. È la Bestia che arriva. Il treno della morte che per alcuni migranti è la speranza di raggiungere il Nord.
Ma può rivelarsi anche come il proprio boia, consegnando i migranti che lo cavalcano direttamente nelle mani della polizia o dei funzionari dell’INM – Instituto Nacional de Migración, l’immigrazione. O peggio ancora, nelle mani di qualche narcotrafficante. Ogni suono viene coperto dal suo sferragliare lungo i binari e dai fischi e saluti che
accompagnano il suo passaggio cosi come quello dei migranti che, aggrappati ai vagoni, rincorrono una speranza più forte di qualsiasi pericolo.