tratto da MiM – Milano In Movimento
Livio Pepino, ex-magistrato (già membro del Consiglio Superiore della Magistratura e Presidente di Magistratura Democratica) capace di prendere posizioni coraggiose in difesa del movimento popolare che da più di due decenni si oppone alla costruzione del TAV in Val di Susa. Autore, tra gli altri, insieme a Marco Revelli, del libro Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa. Abbiamo deciso di intervistarlo nel quadro del nostro approfondimento sul reato di devastazione e saccheggio. Molti gli spunti emersi nell’intervista. Tutti decisamente interessanti.
La contestazione dell’aggravante del terrorismo per i sabotaggi al TAV in Val di Susa, il processo per istigazione a delinquere allo scrittore Erri De Luca, l’utilizzo delle misure cautelari con sempre maggiore frequenza e per episodi “criminali” via via sempre più tenui, l’utilizzo del reato di devastazione e saccheggio con le sue pene abnormi. Casualità o siamo di fronte a un progressivo restringimento dei margini di agibilità politica in questo paese?
Nulla accade per caso. Se l’intervento giudiziario mostra un diffuso inasprimento repressivo vuol dire che è in atto un restringimento dei margini di agibilità politica. L’intervento giudiziario è del resto, da sempre, un banco di prova importante in tal senso. Lo scriveva già cinquant’anni fa Achille Battaglia secondo cui «per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi poco giova l’esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito» (A. Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari, 1962, p. 3). Credo, peraltro, che, con riferimento alla situazione italiana, sia più corretto parlare di un conflitto in corso ché gli orientamenti giudiziari repressivi, ancorché prevalenti, non sono univoci, a dimostrazione dell’esistenza, nella magistratura come nella società, di uno scontro tra posizioni diverse.
Se parliamo di un progressivo restringimento degli spazi di agibilità non sembra essere una dinamica puramente italiana. Basta guardare a quel che sta succedendo in Francia dopo gli attentati dell’ISIS del 13 Novembre 2015 con la proclamazione dello “stato d’emergenza” e lo studio delle leggi speciali. Vede una dinamica comune d’inasprimento delle misure repressive comune a tutto il continente europeo?
Certamente sì. È una dinamica che caratterizza questa fase storica a livello dell’intero Occidente. Una dinamica favorita e aggravata dall’esplosione del terrorismo internazionale ma ad esso preesistente e legata a una concezione della società e delle tecniche di governo della stessa. Una dinamica che si inscrive in quello che è stato efficacemente definito il passaggio dallo stato sociale allo stato penale. Aggiungo che, sotto questo profilo, la dinamica è meno accentuata in Italia che in altri paesi europei o ad essa prossimi (anche senza evocare i casi delle democrazie autoritarie della Russia o della Turchia).
Andiamo nello specifico. Il reato di devastazione e saccheggio risale al Codice Rocco di epoca fascista. Codice Rocco che in qualche modo riprende un reato simile già presente nel Codice Zanardelli (il codice penale del Regno d’Italia approvato a fine ‘800) che però, come faceva notare l’avvocatessa Crisci in un recente convegno, accostava le fattispecie di devastazione e saccheggio alla strage e alla guerra civile chiarendone implicitamente il reale significato. In aggiunta a ciò le pene erano inferiori a quelle del codice del giurista fascista (si parla di condanne dai 3 ai 15 anni). Evidente che il legislatore pensava a episodi gravissimi. Com’è possibile che un reato del genere sia stato utilizzato per contrastare manifestazioni di piazza, magari anche violente, ma assolutamente non paragonabili a situazioni insurrezionali o di guerra civile?
In effetti, in epoca liberale la devastazione e il saccheggio più che un autonomo titolo di reato costituivano una delle condotte di una fattispecie più ampia. L’art. 252 del Codice Zanardelli, in particolare, puniva (con la pena da tre a quindici anni di reclusione) «chiunque commette un fatto diretto a suscitare la guerra civile o a portare la devastazione, il saccheggio o la strage in qualsiasi parte del regno». Evidente il riferimento a fatti di assoluta gravità, coerentemente con lo stesso termine «devastazione», che – secondo il Dizionario Devoto-Oli – designa «la distruzione provocata da un saccheggio o da un cataclisma». Né c’è un cambiamento significativo nella descrizione della fattispecie del Codice Rocco la cui impronta si vede soprattutto nell’aumento del minimo della pena (da tre a otto anni!). La svolta avviene nell’applicazione giurisprudenziale. Interessante notare come, in epoca repubblicana, il reato di devastazione sia stato applicato, sino agli anni Novanta del secolo scorso, non nei confronti di fatti intervenuti nel corso di manifestazioni politiche, ma essenzialmente in occasione delle rivolte carcerarie degli anni Settanta e, due decenni dopo, di “disordini” provocati da hooligans o ultras dentro o nei pressi degli stadi. Evidente in quell’orientamento l’intento di stigmatizzare fatti ritenuti particolarmente ingiustificati più che di riconoscere fattispecie caratterizzate da modalità ed effetti definiti (in situazioni nelle quali assai più propria sarebbe stata la contestazione del delitto di danneggiamento aggravato). Di qui – da questa impostazione – nasce, sul finire del secolo scorso e poi nel nuovo millennio – la contestazione sempre più frequente della devastazione per fatti di violenza nel corso di manifestazioni politiche, le cui prime espressioni sono quelle del corteo torinese degli squatters del 4 Aprile 1998 (in cui, in realtà, andarono in frantumi, a seguito di un nutrito lancio di sassi, solo i vetri del Palazzo di Giustizia in costruzione) e, poi, delle manifestazioni del G8 di Genova del Luglio 2001.
Com’è possibile che un reato contro lo Stato come insurrezione armata (spesso contestato nei confronti dei gruppi armati degli anni ‘70) abbia un minimo di pena inferiore a quello di devastazione e saccheggio? Non ci sono delle palesi contraddizioni? Non è paradossale che un reato contro le cose abbia delle pene superiori a una serie di gravissimi reati contro le persone?
Il fatto non sarebbe paradossale se il reato fosse contestato esclusivamente in casi limite, prossimi alla guerra civile (non casualmente affiancata alla devastazione, come si è visto, nel Codice Zanardelli). Lo diventa invece con gli orientamenti giurisprudenziali più recenti, in conseguenza dei quali si è giunti, in un procedimento napoletano di qualche anno fa, a contestare il reato finanche nel caso del ribaltamento e incendio di un’auto della polizia. È chiaro, peraltro, che fattispecie di reato “aperte” come la devastazione sono in ogni sistema delle mine vaganti. Quanto poi all’entità della pena prevista, il cui minimo è tra i più gravi previsti nel nostro ordinamento, il tema ha aspetti specifici ed altri più generali, che hanno a che fare con la necessaria (ma sempre rinviata) ridefinizione della scala di valori sottostante al catalogo dei delitti e delle pene.
Cosa pensa dell’uso sempre più esteso del concorso morale per il quale il fatto di trovarsi, magari a volto coperto (e per questo comportamento c’è un apposito reato), nel luogo dove vengono compiuti danneggiamenti, porta al rischio concreto di essere condannati a anni e anni di carcere?
Nei processi “di piazza” la tendenza a dilatare la responsabilità, con una sorta di proprietà transitiva, a tutti i partecipanti a manifestazioni nel corso delle quali vengono commessi reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi, è un classico. La tendenza ha avuto espressioni eclatanti, per esempio, nelle vicende relative all’opposizione al Tav in Val Susa in cui la diffusa contestazione dei reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale si è fondata spesso su argomentazione tipo «è ragionevole ritenere che nel caso in cui l’imputato avesse avuto intenzione di limitarsi a manifestare pacificamene, non appena la manifestazione ha assunto carattere violento si sarebbe allontanato». Si delinea così quella che è stata definita una impropria «responsabilità da contesto». E ciò pur se una delle caratteristiche della modernità, nel diritto, è il carattere personale della responsabilità penale, proclamato dal primo comma dell’art. 27 della Carta fondamentale. La responsabilità politica, morale, culturale può essere collettiva. Quella penale no. Ciascuno risponde penalmente per quel che fa (da solo o con altri, agendo direttamente o inducendo altri a farlo) e per quello soltanto, non anche per quel che è, per quel che pensa, per i suoi progetti.
Come valuta l’immobilismo della classe politica sulle tematiche garantiste? Paura di essere impopolari e perdere voti?
Il tema del consenso, nella società dell’immagine, è centrale. E il suo perseguimento, da parte di una politica priva di idee, è regola. Eppure non è sempre stato così, neppure da parte di governi moderati. Ricordo, per esempio, che la stagione delle lotte studentesche e operaie del ’68-69 nella quale – con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969 – erano state denunciate, secondo i dati del Ministero dell’Interno, 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi, venne chiusa, sul versante giudiziario, dall’amnistia politica del 22 Maggio 1970. Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni».