Intervista a Marco Salustro giornalista freelance e videoreporter di guerra
Di Carlotta Dazzi
Fuggono, ma da cosa fuggono? Ma soprattutto perché vengono qui? Sono domande che tornano ricorrenti vivendo a contatto con i rifugiati e i migranti che a migliaia continuano ad arrivare senza sosta nel disperato tentativo di avere una possibilità di vita in Europa. Chi lo chiede spesso non sa, o finge di non sapere. Preferisce voltare la faccia dall’altra parte.
Sono migliaia i rifugiati che partono in modo illegale dalle coste libiche e attraversano l’infido tratto mediterraneo che le separa dalla Sicilia. Oltre 2000 di loro sono morti affrontando questo viaggio per mare nel solo 2015.
La rotta via terra attraverso la Libia per raggiungere le coste da cui partono i barconi dei trafficanti non è meno pericolosa nonostante, dopo la caduta di Mu’ammar Gheddafi nel 2011, la Libia abbia lottato per raggiungere e mantenere la stabilità. Confini che si perdono nel deserto, milizie combattenti rivali e malgoverno hanno lasciato gran parte del Paese nel caos più completo.
Fazioni armate controllano ormai ampie zone del territorio e le loro attenzioni sono rivolte sempre più a chi le attraversa. Affermano che per mantenere l’ordine del Paese tengono i profughi nei Centri di Detenzione, ma in verità questo traffico di esseri umani è diventato una preziosa fonte di guadagno per le milizie mentre cercano di consolidare il loro potere nel Paese.
Tutto sotto gli occhi indifferenti dell’Europa, che non interviene lasciando migliaia di rifugiati nelle mani di carcerieri che li fanno schiavi e li detengono in condizioni disumane. Una vergogna senza giustificazioni di cui parliamo con Marco Salustro, giovane e coraggioso giornalista italiano in prima linea sul fronte libico, che è stato diverse volte in Libia per documentare l’orrore delle sue carceri e dare voce e risonanza alla disperazione delle migliaia di persone che vi sono trattenute illegalmente.
Quando hai iniziato a occuparti delle carceri in Libia?
A dicembre 2014 sono riuscito ad andare in Libia per lavorare a dei servizi poi messi in rete da Vice News*. Ho lavorato mesi per arrivare ai Centri di Detenzione, alla Guardia Costiera e alle vare istituzioni libiche. In Libia ero già stato cinque volte durante la guerra, ma volevo rispondere alla domanda che sentivo serpeggiare in Italia: “Perché gli immigrati continuano ad arrivare qui sapendo di morire in mare, nonostante qui ci sia la crisi e non ci sia posto per loro?”. Desideravo fossero proprio loro, i profughi e i migranti senza più patria e senza asilo, a spiegare in prima persona perché vengono in Europa.
Volevo documentare la drammatica situazione dei Centri di Detenzione libici e così mi son mosso per entrare a Zawya, Misurata e a Surman che è un centro solo femminile.
Quando dici Centro di Detenzione cosa intendi?
Sono Centri solo per i migranti, non ci sono criminali. Sono gestiti dal Dipartimento di Contrasto all’Immigrazione Legale del Ministero degli Interni.
Perché Detenzione? Li considerano clandestini e in virtù delle leggi locali li arrestano?
Secondo la legge libica chi entra illegalmente nel Paese può essere detenuto un non meglio specificato periodo di tempo, deve essere rimpatriato e nel frattempo deve lavorare.
Quindi un migrante clandestino in Libia può essere trattenuto ad libitum?
Il Protection Officer dell’Unhcr, l’unico rimasto a Tripoli, mi ha confremato che non c’è limite detentivo. C’è gente che rimane in questi Centri anche due o tre anni. E credo che, quando lo Stato funzionva, fossero detenuti fino al rimpatrio.
Non avendo possibilità di rimpatrio per tantissimi Paesi anche per i problemi prettamente libici (non hanno strade sicure, non hanno voli, ndr) trattengono profughi e migranti illegali fino a che il Centro non è al collasso, o li lasciano andare quando “pagano” il loro prezzo per uscire.
Chi pagano per uscire, corrompono qualcuno?
Corrompono le guardie. In un caso che ho documentato quest’estate sono stati venduti al trafficante per 1000 dinari a testa (circa 600 euro, ndr).
Quindi poi diventano ostaggio del trafficante?
Sì. La guardia li vende in maniera illegale e loro diventano a tutti gli effetti schiavi dei trafficanti.
Che fine fanno una volta venduti al trafficante?
Devono pagare per liberarsi al trafficante. Nel caso documentato quest’estate la cifra era 2800 dollari a testa per degli eritrei. Incluso in questa tariffa c’era il viaggio per mare. I profughi non possono recedere, una volta entrati nelle mani del trafficante devono partire, non hanno alternative. Chi non ha i soldi rimane schiavo.
Schiavo vuol dire lavorare per i trafficanti?
Sì, che tra l’altro – mi dicevano – non lesinano percosse e abusi. Alla stregua delle guardie libiche.
Immagino anche le donne subiscano di tutto.
Purtroppo non esiste umanità.
In queste carceri ci sono anche minori?
Ci sono tantissimi sedicenni e quindicenni, adolescenti trattati come adulti, mentre i bambini sono con le madri nei carceri femminili o nella parte a loro riservata nei Centri misti. A Misurata, per esempio, al piano terra ci sono solo uomini e a Surman solo donne.
Rispetto alla prima volta che sei stato in Libia un anno fa, la situazione è degradata. Come è cambiata rispetto a questo tema delle carceri?
Caduto Gheddafi, hanno avuto il boom del commercio illegale di persone. Fino al 2011 il flusso era stato fermato da Gheddafi, adesso le milizie sono parte del business e collaborano a gestire il traffico dai confini Sud fino al mare, diciamo che il sistema si è “istituzionalizzato”. Sono le stesse reti che esistevano già prima e che sono tornate a lavorare. Gheddafi aveva ridotto il flusso dei profughi con le deportazioni nel deserto. Non aveva la mano leggera, le condizioni di vita erano le stesse, però gli arrivi erano rallentati perché la rotta libica non era più fattibile. C’erano meno partenze. Dopo la guerra civile hanno ripreso a portarli perché la via del mare si è “riaperta”.
Perché i profughi ora prediligono Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria rispetto alla Libia?
La rotta libica innanzitutto costa di più. I siriani che sono passati dalla Libia volavano e volano ancora fino a Khartoum dove possono andare senza visto e da lì attraversano tutto il deserto, poi fanno Ajdabya, passare vicino a territori controllati dall’Isis e poi prendere il mare.
Majid, uno dei profughi siriani che ho intevistato, mi ha raccontato di aver speso 7000 dollari per questa tratta compreso il viaggio in mare.
Ora passano dalla rotta turca-ungherese perché adesso è possibile. I primi arrivi con navi grandi e poi gli sbarchi estivi in Grecia con una rotta sicuramente più facile e meno pericolosa di quella libica.
Rispetto alle decisioni europee sui corridoi umanitari o su un’azione militare, qual è secondo te la via giusta?
Dovrebbero fare pressione sui governi europei perché in Libia riconoscano la Convenzione di Ginevra per i rifugiati, perché facciano lavorare le agenzie internazionali. Fino a due anni fa l’Unhcr, pur non avendo mandato legale, faceva le registrazioni per i richiedenti asilo, adesso hanno dovuto lasciare il Paese per ragioni di sicurezza.
Non c’è mai stata da parte dei Paesi euopei una pressione perché in Libia i profughi vengano trattati in maniera diversa e possano fare domanda di asilo e accedere a un programma di inserimento o arrivare in Europa in modo legale.
Anzi questo viene proprio evitato perché si creerebbe un precedente che cinicamente gli europei non vogliono.
Preferiscono che il traffico venga fermato con le maniere forti, come faceva Gheddafi. È una percezione che hanno tutti in Libia, sanno che chi riesce a fermare il traffico sarà amico degli europei. Bisognerebbe fare pressioni perché riconoscano i diritti umani, facciano ispezioni nei Centri di Detenzione, permettano ai profughi di chiedere asilo.
Ho incontrato dei rifugiati registrati dall’Unhcr e scappati dal Congo che sono in Libia dai tempi di Gheddafi e adesso siccome sono cristiani vivono sotto perenne minaccia, sono stati aggrediti in casa più volte, minacciati di morte, inseguiti per strada e non vogliono passare il mare perché hanno paura per i figli che sono piccoli ma non hanno alternativa. L’Unhcr neanche gli risponde, non ha possibilità di aiutarli in nessun modo, non possono tornare in Congo perché sono rifugiati perseguitati in Congo e sono bloccati in Libia senza nessun interlocutore.
L’Unhcr non può fare niente o non vuole fare niente?
Difficile a dirsi. Quello che facevano quando avevano staff in campo era fornire un minimo di assistenza sanitaria nei Centri di Detenzione con visite periodiche dei medici locali, facevano le registrazioni e quando c’erano soccorsi in mare dicevano “questi sono siriani, non li potete arrestare, lasciateli andare perché possono chiedere asilo”.
Confermi quindi che esistono profughi di Serie A e B?
Assoluatmente. I neri non sono considerati esseri umani, gli arabi sono trattati meglio. Tra cristiani e mussulmani c’è una differenza, ma il vero spartiacque è tra neri e arabi.
Vale anche per gli eritrei e i somali?
Sì, per i libici tutti quelli al disotto del loro Paese, tutti quelli di colore sono afrikan, feccia.
Parliamo delle carceri. Che condizioni hai trovato?
Sono partito da Misurata, Surman e a Tigr Essikka, un centro di raccolta gestisto dalla milizia che è sotto il Ministero degli Interni dove arrestano i migranti e li trattengono fin quando non vengono trasferiti in un Centro di Detenzione. Poi a giugno sono stato in un centro illegale gestito dai miliziani islamici di Bengasi legati al gruppo Ansar al Sharia che hanno combattuto fino a pochi mesi in Africa e che ora si sono spostati a Tajoura (un quartiere di Tripoli) e vogliono prendere il controllo della zona con il placet del governo per cui hanno arrestano e detengono gli asilanti.
Sono riusciti nel loro intento?
No, e adesso terranno imprigionate queste persone arrestate illegalmente per fare leva sul governo. Era un posto che stavano attrezzando con 700 persone trattenute in condizioni anche migliori rispetto ad altri posti visti.
Negli altri centri c’è il sovrafollamento, vi vengono stipate le persone finché non ci entrano più, anche in piedi. A seconda degli arrivi o dei trasferimenti non c’è limite al numero di detenuti. I servizi igienici sono uno ogni 100/200 persone, non c’è assistenza sanitaria di alcun tipo. Sporadicamente c’è una Ong locale che va, ma è veramente ininfluente dato il numero di persone. Poi ci sono le percosse quotidiane che provocano fratture e lesioni che non vengono curate e creano altri problemi.
Poi c’è la schiavitù…
Il lavoro da schiavo è pratica normale. Andare al Centro di Detenzione e dire “dammene cinque che devo fare questo lavoro” è costume diffuso. Li portano a lavorare e poi li riportano al Centro.
Che lavori sono costretti a fare i detenuti?
Manuali, fisici come demolire, costruire, zappare. Questo anche chi non è detenuto, i libici non fanno questi lavori, non si vede mai un libico lavorare. Sono solo subsahariani che fanno questi lavori.
A Zawya, per esempio, c’erano dei ragazzi presi dal Centro per lavorare, gli avevano tolto il passaporto, i documenti e li tenevano rinchiusi finché non avessero finito senza pagarli. Non erano detenuti, erano operai “assunti” in questo modo. Come vengono tratttate queste persone però è un problema generale in Libia, è una cosa molto diffusa e va scritta in questo contesto.
Avrai raccolto tante testimonianze drammatiche.
Nel Centro di Detenzione ci sono testimonianze di persone uccise senza motivo, la guardia magari si innervosisce spara a un detenuto e lo ammazza solo per questo.
Nel centro illegale di Tajura quattro che tentavano la fuga sono stati ammazzati, due mentre scappavano e due giustiziati dopo averli torturati sparandogli in testa pubblicamente a monito davanti agli altri detenuti.
Come si entra in questi carceri?
Con una lunga trafila burocratica, bisogna chiedere il permesso e poi puoi andare nei centri che dicono loro, quando dicono loro. Quello che ho visto e filmato è “la parte bella”, quando il carcere viene ripulito. Bisogna avere permessi su permessi e la sensazione è che sistemino le cose in maniera tale che la visita sia meno cruenta. Anche i detenuti vengono istruiti su cosa devono dire. Per esempio, non vogliono si dica che sperano di passare il mare, non hanno una gestione così rigida della propaganda, ma ogni direttore di carcere pensa sia meglio far uscire una determinata notizia. Non puoi andare lì, entrare e filmare quel che vuoi, è tutto concordato.
Hai visto altri giornalisti documentare queste cose?
Sì, molti sono andati. Li mandano quasi sempre negli stessi posti. Misurata è un centro dove mandano spesso, anche ad Abu Slim sempre a Tripoli. La trafila è la stessa, quando si chiedono questi permessi se si ha la pazienza di aspettare, poi ti portano nei vari centri. I direttori sono anche contenti di farli vedere perché vogliono far sapere che tengono la situazione degli esodi sotto controllo.
Ma perché i siriani vanno lì sapendo che rischiano di finire in questi centri?
Spesso ho sentito storie di persone che sospettavano di essere state vendute dagli stessi trafficanti a chi li ha arrestati. Magari invece di passare in una strada nascosta passano in una strada davanti al check point dove sanno che c’è chi li arresta. Ovviamente poi devono fare un po’ di tempo nel Centro di Detenzione e pagare. La percezione che ho avuto è che sia una sorta di scambio, un patto fra le forze in campo. “Tu ce li fai passare un po’ da qui, un po’ li trattieni perché serve alla propaganda, un po’ prendiamo la mazzetta e siamo tutti contenti”.
I siriani in tutto ciò perché “ci cadono”?
Quelli che ho incontrato avevano scelto questa rotta perché loro conoscenti l’avevano fatta e gli avevano passato i contatti da Damasco. Molti vanno a Karthoum e poi da lì c’è un trafficante che li porta avanti per un tratto, poi un altro e via così.
Dai racconti il centro di detenzione non è neanche la cosa peggiore che possa capitare perché nel deserto vengono rapiti da banditi che li tengono magari un mese e anche lì devono pagare il dazio per uscire, li uccidono, violentano le donne. È il viaggio che è pazzesco, non so se poi c’è una percezione realistica di quello a cui vanno incontro quando partono perché sono disperati.
La disperazione ricorre spesso nei loro discorsi. Dicono sempre “Meglio morire in mare, piuttosto che restare in Siria”. Non ci si capacita che entrino di proposito dentro questo inferno.
Dipende dai casi, per esempio c’è una ragazza siriana che ho conosciuto che è partita da Yarmuk e penso che per lei fosse impossibile arrivare in Turchia. Poi c’è chi dice “qualsiasi cosa, basta riesca ad andare via”, c’è chi magari gli viene raccontato che è andata bene e poi trovano la morte o peggio. È una scelta individuale. Prima che si aprisse la rotta dei Balcani ci provavano per disperazione e mancanza di alternative più sicure.
Delle carceri quale hai trovato più disumana?
Zawya perché quando ci sono stato c’era un affollamento notevole, in una stanza di 50 metri quadri con un bagno, c’erano 100 persone con i matersassi per terra, non c’era un centimetro per camminare.
Qual è l’opinione del direttore del Dipartimento di Contrasto all’Immigrazione Mustafa Abu Dreda?
Soggettiva e oggettiva. Basti pensare al tema dei trafficanti. In base alla legge libica per cui i rifugiati sono incarcerati, la pena per un trafficante che provoca la morte di qualcun di loro va da cinque anni all’ergastolo. Ho chiesto come mai tra i fermati non ci sono trafficanti. Il direttore del dipartimento ha risposto “perché non abbiamo possibilità di far applicare la legge”. Se viene arrestato un trafficante, il giudice che lo condanna il giorno dopo viene minacciato di morte, non c’è legge che si possa far rispettare.
Il direttore del dipartimento sostiene anche che eritrei, somali e siriani vengono rilasciati subito, che non sono rimpatriati perché richiedenti asilo, che cercano di trattarli al meglio ed è per questo che hanno chiesto aiuto alle milizie. E si vede cosa combinano… La verità è che questo Dipartimento è corrotto in maniera allucinante
Questo direttore gestisce tutti i centri che mi hai citato?
Sì e anche quello di Gwea, che sta verso Garabulli, ed è messo meno male degli altri. Il problema non è solo quello dei maltrattamenti, ma anche che sono strutture non adatte alla detenzione dove buttano la gente dentro senza porsi il minimo problema. Anche chi è di buona volontà come questo direttore o alcune guardie che ho incontrato, che cercano di far sì che le condizioni siano umane, possono fare poco, non hanno gli strumenti, non gli arrivano i soldi.
Dunque, per chi fugge in Libia è ovunque inferno?
Ha poco senso stilare classifiche. A Surman, nel carcere femminile una ragazza mi ha raccontato che tutti i giorni prendono una di loro e la stuprano. In un altro mi hanno detto che ne hanno ammazzato uno portandoselo nel deserto, altri li vendono. Ci sono tanti orrrori che non ho visto che andrebbero denunciati.
C’è il direttore che viene dalla Polizia che cerca di fare del suo meglio nelle carceri che gestisce, c’è quello gestito dalla milizia dove sono solo criminali. I peggiori sono quelli che non ci fanno vedere e questo è sicuro.
Quanti sono i Centri di Detenzione?
22 in tutta la Libia, poi il direttore mi diceva che non hanno più il controllo di quelli a Sud e che adesso sono gestiti da milizie armate autogestite.
C’è anche quello di Ghiarian vicino alle montagne dove non sono stato, a 200 km da Tripoli. Pare sia particolarmente affollato e isolato, è in mezzo al deserto, sbattuto lì, in più ora è in piena zona di guerra. Non so neanche se lo controllano più, quel che è certo che ci è rimasto dentro starà lì a oltranza a meno che non riesca a comprarsi la libertà.
Parte di chi sbarca in Sicilia o a Lampedusa è passata dalle forche caudine dunque di questi carceri?
Una parte di loro, ma non la maggioranza per fortuna.
Ma è questione di portafoglio o va solo a fortuna?
Se vengono presi sono incarcerati. Non c’è nessuno a livello internazionale che li aiuti, gli stessi direttori che ho incontrato lamentano di essere lasciati a se stessi, vorrebbero aiuti concreti, soldi e assistenza sanitaria.
Dimenticati in terra di nessuno.
L’Unhcr dicono sia in remote mode, si fanno aiutare da agenzie locali che però non fanno niente. Nessun migrante me ne ha mai parlato. Anzi quando vedono un giornalista hai proprio la percezione di essere l’unica finestra sul mondo per gridare “aiuto”.
Sei tornato da questi viaggi sempre con dei legami forti che si sono costituiti con i migranti che hai incontrato.
Sì, a chi incontro lascio il mio nome, mail e cellulare per mantermi in contatto.
Parliamo del carcere femminile, è gestito da uomini?
Sì e purtroppo con stupri all’ordine del giorno. Le donne hanno tutte tra i 16 e i 30 anni, l’età media dei migranti. Per affrontare questo viaggio devono essere forti e giovani perché comunque il progetto migratorio è impegnativo, poi arrivi in Europa e devi lavorare.
Nelle carceri in generale ci sono più eritrei e somali anche in Libia ora?
Il direttore del dipartimento, Mohamed Abu Dreda, mi ha detto che il 70% sono eritrei e somali.
Come hai vissuto l’esodo sulla via dei Balcani?
È un miglioramento passare da lì, anche se davanti trovano purtroppo l’Europa dei muri. Nessuno però li uccide, o li fa schiavi. Quando arrivano in Grecia devono affrontare ancora tantissime fatiche e umiliazioni, ma la Polizia non li ammazza, non li trattiene. Sono in Europa e anche se l’Europa si comporta in maniera vergognosa sono al sicuro.
Il terrore lo avrai letto negli occhi di tanti.
Purtroppo sì. Ad Abu Slim ho incontrato dei ragazzi eritrei che avevano 14-16 anni ed erano stati rapiti dall’Isis. Il gruppo era di 80 e ne sono sopravvissuti 8 solo perché si sono convertiti all’Islam. Gli altri li hanno decapitati 10 a 10 ogni giorno. Questi otto giovanissimi sono sopravvissuti restando un mese con il gruppo armato dell’Isis finché il campo dove si trovavano è stato bombardato e nella confusione sono riusciti a scappare. E, non avendo più soldi, hanno attraversato a piedi metà Libia, per poi raggiungere la Tunisia dove speravano di incontrare qualcuno delle Nazioni Unite per chiedere aiuto. Invece sono stati presi alla frontiera e da lì portati al centro di Muslim. Nel Centro di Detenzione, pur esssendo dei ragazzini visibilmente traumatizzati, non hanno avuto nessuna assistenza umanitaria, nonostante la tragedia alle spalle. In Libia oggi manca tutto, non c’è nessuna ambasciata aperta, non c’è nessuna organizzazione internazionale, niente di umano e umanitario.