Porta di Damasco: Gerusalemme al tempo dell’occupazione 2.0

Una narrazione collettiva, mille voci, molti linguaggi differenti, un’unica città

Diario di bordo, Palestina occupata, Gerusalemme

di G.M.

E’ un clima secco quello che domina nei vicoli della città vecchia di Gerusalemme, non solo per il benvenuto caldo che segna finalmente l’inizio della primavera dopo un inverno molto rigido, ma anche per la problematicità del punto che rappresenta lo snodo principale del commercio turistico e religioso della città santa; il punto in cui arabi, israeliani, turisti, religiosi di ogni confessione, accedono alla cittadella o escono per raggiungere la vicina e molto più moderna Gerusalemme ovest; uno dei quattro punti di accesso al centro della parte Est, perennemente monitorato dallo sguardo attento dei militari dell’Israeli Defense Force: Damascus Gate, la porta di Damasco.

Forse proprio da questo dovrebbe partire l’analisi della situazione di Gerusalemme, città contesa e sulla carta amministrata da entrambe le fazioni, ma nella pratica gestita da Israele; forse dovremmo partire proprio da quell’attento sguardo dei militari (il più delle volte di età compresa tra i 18 e i 27 anni e di entrambi i sessi) armati di tutto punto e con l’M16 carico -altezza uomo-, fermi negli avamposti situati all’interno della città vecchia, fermi a guardare, fermi ad osservare.

Sembra quasi paradossale vederli durante le ore libere a pregare al Muro del Pianto, o al McDonald’s a fare i selfie con i propri amici o parenti, o persino vederli uscire dal bagno pubblico…sempre e comunque con l’arma a tracolla; paradossale perchè durante il turno di “lavoro”, negli avamposti -israeliani- situati nel mercato -palestinese- della cittadella, il loro ruolo consiste nello scortare le famiglie dei coloni ebraici a casa (quasi sempre occupata, espropriata, o in rarissimi casi comprata ,con la forza, alle famiglie Palestinesi), seguire gli sguardi e le azioni dei commercianti, e rimanere fermi per ore a monitorare l’imponente flusso di persone per poi, in virtù della rinomata “sicurezza” israeliana, fermare quelle sospette.

Già ma qual è il discrimine di sospetto? In un flusso di gente talmente vasto e multiculturale, come può un diciannovenne a cui è stato imposto sin da piccolo di individuare un nemico nel “diverso”, capire chi tra coloro che vede, sia lo spacciatore, o il possibile attentatore, o l’estremista?

A quel punto allora scatta l’ormai consolidata prassi del controllo a campione, fermando persone di ogni genere; non ci sarebbe nulla da obiettare se non fosse che la differenza la fa il passaporto: se si è internazionali dopo un paio di domande si è di nuovo liberi di girare, magari senza neanche aver dato troppa attenzione a ciò che è appena successo, se invece si è arabi e residenti a Gerusalemme o in qualsiasi altra zona, la situazione cambia.

In caso di blocco da parte delle “autorità”, si riconosce facilmente il Palestinese dagli internazionali, visto che è l’unico a cui viene richiesto di svuotare le tasche, appoggiarsi al muro, sottoporsi a perquisizione -anche fisica- e a molti minuti di vero e proprio interrogatorio; capita a volte che la stessa persona venga fermata in più punti nello stesso giorno e più volte nella stessa settimana, tutto questo ripetuto per giorni, mesi, anni.

Le motivazioni che spingono i militari a fermare tempestivamente un palestinese, quando lo riconoscono, passano da “pericolo di pubblica sicurezza perchè la sigaretta rullata potrebbe celare al suo interno della droga” o “pericolo di pubblica sicurezza perchè le mani in tasca potrebbero nascondere un’arma”, oppure “pericolo di pubblica sicurezza perchè chi corre potrebbe essere un potenziale pericolo”.

Non è difficile immaginare quanti bambini, donne e anziani siano stati fermati per uno dei motivi sopracitati, e non è difficile immaginare la pressione mentale che un residente debba sopportare ogni giorno sapendo che una forza esterna decide arbitrariamente di eseguire interrogatori, tagliare la luce, aumentare le tasse, arrestare i propri cari (oppure animali non registrati, come cani o muli, sempre in virtù dell’istituto della “sicurezza”), o varare leggi contro gli attivisti per i diritti umani in modo da garantire una sempre minore partecipazione alla vita politica, e per contro assistere all’inevitabile disgregazione della propria leadership governativa, sempre più alla deriva per i vari problemi intestini e l’ormai crescente delegittimazione popolare; la soluzione pare evidente.

Di fronte ad un perenne “panoptikon” del controllo degno della migliore tradizione Foucaultiana, la strada da imboccare è sempre quella della disperazione: è solito ormai sentire durante la notte suoni di spari e sirene della polizia, e in una sola settimana si contano più di 6 morti e 12 feriti alle porte di Damasco, tutti freddati con un solo colpo, tutti giovanissimi, tutti partiti con l’intento di investire o accoltellare i soldati degli avamposti.

La situazione diventa ancora più paradossale poi nel notare la stragrande maggioranza dei commercianti Palestinesi che non sanno cosa accada all’infuori di quelle mura, o magari che decidono di proseguire la propria routine quotidiana preferendo non saperlo, per non soffrire, per non esporre ancora di più al pericolo i propri figli. Un occhio occidentale potrebbe subito indignarsi di fronte all’apparente inerzia dei Palestinesi di Gerusalemme, ma sbaglierebbe: le dinamiche sociali di un popolo si intrecciano con la sua mentalità, con i suoi tempi, con il suo background e le sue prospettive future.

Molti, moltissimi giovani cominciano a comprendere l’importanza della formazione e dell’educazione, cominciano a comprendere la riscoperta delle proprie radici come fattore imprescindibile per la propria liberazione, a difendere la propria eredità culturale; cominciano a muoversi in direzione contraria a quella in cui si dirige la società occidentale: cominciano a non dimenticare, a ricordare.

Ogni qual volta si sentano notizie di omicidi (e vere e proprie esecuzioni) nelle zone Est della città, o a Jenin, oppure nell’ormai tristemente nota Hebron, si possono notare sempre più comunità di giovani aggregarsi per agire, agire in modo intelligente, agire in modo costruttivo, scegliendo (per riprendere Roger Garaudy) tra una rivoluzione convulsa e una rivoluzione costruttiva; in una sola parola “organizzazione”. Sicuramente il processo sarà lento e necessiterà di continui cambiamenti e supporto, di parecchi anni di “educazione alla cittadinanza attiva” e partecipazione politica intesa come interessamento a ciò che concerne la propria pòlis, ma la società della può fare passi da gigante.

Molto diversa è invece la situazione della Cisgiordania occupata, partendo dalla stessa Betlemme, ove la situazione di conflitto è molto più viva e molto più ardua, e dove , al contrario di Gerusalemme, esiste una prassi politica ben consolidata, in particolare da Beit Sahur in poi; una consapevolezza sociale frutto di studi universitari e “sharing” interculturale grazie ai social media, e dove ovviamente il colpo di martello dell’IDF cade con molta più violenza, agendo con furbizia e prese di posizione estreme, utilizzando l’arma politica di latina memoria del divide et impera.

Ma questa è un’altra storia, e raccontarla necessiterà tempo e pazienza.