l’impegno degli attivisti nel paese dell’America Latina continua ancora con più forza
di Lorena Cotza
La mattina del 15 marzo, l’attivista Nelson García è stato ucciso. Due colpi di pistola, diretti al viso. I sicari che lo hanno assassinato avevano l’ordine di mandare un segnale inequivocabile: chi osa protestare e ribellarsi ai grandi proprietari terrieri e alle autorità locali rischia di fare la stessa fine. Nelson è stato ammazzato di fronte alla casa di sua suocera, nella località di Rio Lindo, nel nord-ovest dell’Honduras. Aveva trascorso la mattinata a Rio Chiquito, a pochi chilometri di distanza, dove aveva assistito allo sgombero forzato di circa 150 famiglie indigene. Prima che le ruspe iniziassero a distruggere le fragili baracche di legno, Nelson aveva aiutato gli abitanti del villaggio a portar via dalle case i loro pochi averi.
Rio Chiquito è un territorio conteso. Due anni fa un gruppo di famiglie indigene costruì un piccolo villaggio, in un terreno prima inutilizzato, ma un ex-sindaco ne sta reclamando la proprietà servendosi di documenti falsificati. Il giorno dello sgombero erano presenti un centinaio di poliziotti e una trentina di militari. Le famiglie indigene, inermi, non avevano alcun mezzo per opporsi.Nelson era un membro di COPINH (Consiglio civico delle organizzazioni indigene popolari), un’associazione che dal 1993 lotta per la difesa dell’ambiente e dei diritti dei popoli indigeni in Honduras. La notizia del suo omicidio è stata accolta con particolare shock e dolore dai suoi colleghi.Poco meno di due settimane prima, la notte del 2 marzo, due uomini armati avevano ucciso la nota attivista ambientale Berta Cáceres, co-fondatrice di COPINH e vincitrice del premio Goldman per l’ambiente nel 2015.
“Nelson è stato ucciso perché si era schierato dalla parte dei più deboli”, dice Sotero Chaverria, uno dei leader di COPINH. “L’ex-sindaco vuole vendere i terreni di Rio Chiquito a un’azienda che costruisce pannelli solari e ha ignorato le nostre proteste. Le ruspe sono passate sopra gli orti in cui le famiglie del villaggio coltivavano banane, yuca, canne da zucchero… sopravvivevano grazie a quello, e ora hanno perso tutto”.
La mattina in cui Nelson è stato ucciso anche Sotero si trovava a Rio Chiquito. Quando ha provato a protestare contro lo sgombero, la polizia ha minacciato di volerlo arrestare, ma gli abitanti del villaggio sono intervenuti e l’hanno protetto. “Gli omicidi di Berta e di Nelson non possono restare impuniti”, dice Sotero. “Ma come possiamo sperare che la polizia trovi i colpevoli, se invece di investigare seriamente il caso tratta noi di COPINH come fossimo criminali?”
Nelson e Berta sapevano di rischiare la vita. Ma vivere, per Nelson e Berta, significava lottare fino alla morte per difendere il proprio territorio.
Significava proteggere i fiumi che rischiavano di essere inquinati, salvare gli alberi prima che intere montagne fossero disboscate e protestare contro la costruzione di miniere che avrebbero iniettato veleni nel cuore della loro terra. Per il popolo Lenca, il gruppo indigeno maggioritario nel paese, i fiumi e le montagne sono sacri: sono il luogo magico dove vivono gli spiriti degli antenati, dove si raccolgono le preziose erbe medicinali, e dove si trova tutto ciò di cui si ha bisogno per vivere.
Per gli occhi avari degli investitori internazionali, tuttavia, gli stessi fiumi e le stesse montagne venerate dai popoli indigeni sono una facile fonte di guadagno, un forziere d’oro che non aspetta altro che essere svuotato. Le chiavi di quel forziere furono consegnate dall’ex-presidente conservatore Porfirio Lobo, salito al potere nel 2009 con un colpo di stato appoggiato dal governo statunitense. Lobo diede il via libera agli investimenti di compagnie straniere e nel giugno 2010 approvò la costruzione di 40 impianti idroelettrici. La situazione non è migliorata con il successivo governo guidato da Juan Orlando Hernández, il cui slogan è “l’Honduras è aperta agli investimenti”.
Secondo le convenzioni internazionali ratificate dal governo honduregno, i progetti ad alto impatto ambientale non possono essere avviati senza aver prima consultato la popolazione locale. I membri di COPINH, tuttavia, denunciano di non essere mai stati interpellati prima della concessione delle licenze per lo sfruttamento del territorio. Gli unici a dare il beneplacito per queste grandi opere sono generalmente le autorità locali, il cui silenzio viene comprato con profumate tangenti.
L’Honduras è una terra di forti contrasti, dove la bellezza selvaggia della natura fa da sfondo a quotidiani e brutali episodi di violenza.
A causa della sua posizione strategica lungo le rotte del narcotraffico, è uno dei paesi non in guerra col più alto tasso di omicidi. Si tratta di una violenza gratuita e normalizzata: quasi tutti gli uomini girano con una pistola in tasca e nessuno si meraviglia alla notizia dell’ennesimo spargimento di sangue. In questo contesto, la lotta di COPINH – basata sui principi della non violenza – è di per sé un atto rivoluzionario: “Berta aveva ricevuto centinaia di minacce. Ma la sua unica arma era la voce: non portava nessun’altra arma con sé,” racconta il fratello Gustavo Cáceres.
La situazione è peggiorata drasticamente dopo il colpo di stato del 2009 e a farne le spese sono stati soprattutto i gruppi più marginalizzati della società honduregna, tra cui gli attivisti per l’ambiente, le popolazioni indigene, le donne e le persone LGBTI. Secondo l’ultimo rapporto di Global Witness “Quanti altri ancora?”, l’Honduras è il paese più pericoloso al mondo per gli attivisti ambientali. Dal 2010 al 2014, ne sono stati uccisi oltre cento.
La storia di COPINH è una storia di eroica resistenza di fronte a un’infinita serie di minacce, intimidazioni, attacchi e casi di persecuzione giudiziaria. In seguito alla morte di Berta, gli attivisti indigeni sono stati pedinati, interrogati per ore come se fossero loro stessi i colpevoli dell’omicidio, e sorvegliati durante le manifestazioni di protesta.
“Il 17 marzo abbiamo organizzato una marcia a Tegucigalpa”, racconta Sotero. “La polizia ha cercato di ostacolarci in ogni modo e ha fermato i pullman in cui viaggiavano i membri di COPINH. I poliziotti hanno inventato delle scuse e ci hanno detto che nessun pullman poteva entrare in città. Ma non ci siamo arresi: siamo tornati indietro e siamo ripartiti con le nostre auto private”. Negli ultimi anni sei attivisti di COPINH sono stati uccisi. Solo nel caso di Tomas García – assassinato da un miliare nel luglio 2013, durante una protesta pacifica – il colpevole fu condannato a 20 anni di carcere. In tutti gli altri casi, i responsabili degli attacchi non sono mai stati identificati.
Ma la storia di COPINH è anche una storia di inaspettate vittorie. Dal 2006 la comunità indigena di Rio Blanco si è opposta alla costruzione dell’impianto idroelettrico Agua Zarca, sul fiume Gualcarque, nel sud-est dell’Honduras. “Quando ho iniziato la lotta andavo dal fiume per ascoltare le sue parole. Sapevo che sarebbe stato difficile, ma sapevo che avremo vinto. Me l’aveva detto il fiume”, aveva detto Berta nel 2015, durante la cerimonia in cui le fu consegnato il Goldman Environmental Prize. Il fiume sacro aveva ragione: il popolo Lenca ha vinto, e continuerà a vincere nonostante la scomparsa di Berta e Nelson.
L’impianto idroelettrico Agua Zarca è gestito dall’impresa honduregna DESA, in parte controllata dagli Atala, una delle più ricche famiglie del paese, sospettata di aver sostenuto il colpo di stato di Lobo. Di fronte alle accuse di essere responsabile per la morte di Berta, la DESA ha negato qualsiasi collegamento con l’uccisione dell’attivista e non ha ceduto alle richieste di fermare il progetto.
Il 16 marzo, la banca per lo sviluppo olandese FMO, che aveva partecipato con un investimento di 15 milioni di dollari, ha invece annunciato in un comunicato che a causa dei recenti episodi di violenza sospenderà le sue attività in Honduras. FinnFund, un fondo del governo finlandese che aveva investito cinque milioni di dollari nel progetto Agua Zarca, ha seguito l’esempio di FMO. Nel 2013, in seguito alle proteste della comunità di Rio Blanco, si erano ritirati anche il colosso cinese Sinohydro e IFC, il braccio di investimenti privati della Banca Mondiale.
Si tratta di importanti vittorie per COPINH, ma sono vittorie dal gusto amaro. Da anni FMO e Finnfund erano al corrente delle violazioni dei diritti umani legate ai loro investimenti in Honduras, ma solo un duplice omicidio le ha convinte a sospendere le attività.
“Come difensori dei diritti umani non vogliamo essere martiri,” dice l’attivista guatemalteca Claudia Samayoa. “Vogliamo vivere per costruire un mondo migliore, non morire nel tentativo di farlo. Ma in America Latina non ci permettono di vivere: ci uccidono, ci criminalizzano, cercano di toglierci la dignità. Ma Berta ci ha insegnato che non dobbiamo rinunciare a lottare, perché prima o poi la giustizia ci darà ragione. E oggi la lotta di Berta è più viva che mai”.
L’immagine di Berta Cacéres in apertura è una foto di Prachatai tratta da Flickr in CC