di Alessio Di Florio
La cronaca di questi giorni sta squarciando, una volta di più, il velo di propaganda, bufale, vere e proprie menzogne e deformazioni della realtà intorno all’arrivo dei migranti. La fortezza Europa non accoglie, non c’è buonismo né tappeto rosso. La fortezza Europa respinge con violenza, calpesta umanità, cancella ogni umana pietà. Continueranno sempre certe “semplificazioni” e le bufale costruite ad arte da razzisti e xenofobi delle destre, ma la realtà sta da un’altra parte. L’accoglienza non esiste e, altro che hotel di lusso e alberghi a cinque stelle, tante, troppe volte ci sono state solo condizioni disumane, degrado (anche sanitario), botte e violenze, abusi, diritti umani calpestati.
Un mese fa circa sono stati sequestrati sette centri in provincia di Avellino per cibo scadente, strutture fatiscenti e scarse condizioni igienico-sanitarie. Un’inchiesta de L’Espresso di ormai quasi due anni fa denunciò veri e propri capannoni vicino Ragusa dove sono quotidianità persino le violenze sessuali, anche durante festini per parenti e amici dello sfruttatore. Fanpage.it ha realizzato, nell’ultimo anno circa, diverse inchieste su “luoghi di accoglienza” nelle stesse condizioni (se non anche peggiori) di quanto denunciato in provincia di Avellino. Leggiamo nella presentazione dell’inchiesta del direttore Alessio Viscardi del 13 aprile 2015 le dichiarazioni della responsabile immigrazione dell’USB, Svitlana Hryhorchuk: “Mangiano cibo non buono, a volte risalente a giorni prima, non ricevono cure sanitarie adeguate e sono abbandonati a se stessi”. Entrato in una struttura da un’entrata posteriore lo stesso giornalista riferisce di “quattro ragazzi sistemati in poco più di quattro metri quadrati, senza avere neanche abiti puliti e soltanto con un flacone di shampoo al mese. “Non viene erogato regolarmente il pocket money” ovvero i 2,50€ che lo Stato dovrebbe garantire ai richiedenti asilo per potersi mantenere e sostenere le minime spese indispensabili alla sopravvivenza, visto che per legge questi ragazzi non possono neanche cercare un lavoro.
Molto prima che diventasse noto alle cronache nazionali con l’inchiesta su “Mafia Capitale”, da anni la Rete Antirazzista Catanese aveva prodotto denunce su quel che accadeva nel CARA di Mineo.
Riprendendo le proprie precedenti denunce gli antirazzisti non esitarono, dopo che l’inchiesta divenne pubblica, ad attaccare “la disastrosa (per i migranti) gestione d’ingentissime risorse pubbliche per il mega-business della pseudo-accoglienza (come dal marzo 2011 abbiamo definito questo vergognoso laboratorio di nuove politiche segregazioniste per i richiedenti asilo)”, chiedendo “quando dignità e giustizia per i richiedenti asilo?”. Secondo la Rete la situazione negli ultimi 3 anni e mezzo si era “incancrenita”, evidenziando che “Il sistema Odevaine proprio nel Cara di Mineo ha espresso la sua capacità di fare coincidere i controllati con i controllori, si è consolidato un sistema clientelare che accontenta tutti, dalle istituzioni ai media, dai sindacati all’associazionismo” mentre le condizioni di vita dei migranti denunciarono peggioravano costantemente con “la media di abitanti nelle case è di oltre 20 persone (quando vi alloggiavano i militari statunitensi di Sigonella vi abitava un solo nucleo familiare) e le condizioni d’indigenza (si continua a versare il pocket money quotidiano di euro 2,50 in sigarette) costringe molti migranti a lavorare in nero per 10/15 euro al giorno nelle campagne; stanno dilagando anche la prostituzione e lo spaccio di droga”.
“Questo mega-CARA, unico in tutta Europa, è un esperimento fallito di contenimento forzato dei migranti, che vengono parcheggiati a tempo indeterminato (in media 18 mesi) e che sta costruendo un conflitto razziale tra autoctoni e migranti: da una parte i richiedenti asilo vengono supersfruttati dai caporali nelle campagne, dall’altro la destra xenofoba alimenta nel calatino la “guerra fra poveri”, mentre con “Mafia Capitale” i fascio-mafiosi si sono arricchiti sulle nostre spalle e dalle nostre tasche” fu la conclusione del durissimo j’accuse della Rete Antirazzista Catanese. Incredibilmente, nei giorni scorsi hanno denunciato gli attivisti “No Frontex – No Hotspot – Mai più Lager” una “brutta copia” del centro di Mineo potrebbe sorgere a Messina, ampliando e trasformando in un “megahub” una ex caserma che definiscono già ora una “vera e propria vergogna siciliana tra i centri di semidetenzione per migranti e richiedenti asilo”.
Gli attivisti respingono tale possibilità e, anzi, chiedono di “chiudere immediatamente gli scandali disumani della tendopoli del Palanebiolo e della caserma Bisconte”.
Poco prima dello scorso Natale un appello, sottoscritto da decine di militanti, attivisti, associazioni e movimenti denunciò la situazione in cui sono state costrette “decine di persone provenienti da Mali, Gambia, Pakistan, Somalia, Eritrea, Nigeria, con in mano solo un decreto di respingimento differito che intima di lasciare il territorio italiano dalla frontiera di Roma Fiumicino entro 7 giorni” provenienti da Lampedusa.
L’appello denuncia che “centinaia di migranti, in maggioranza eritrei, sono illegalmente detenuti a Lampedusa per settimane perché si rifiutano di farsi prendere le impronte digitali: non perché abbiano qualcosa da nascondere, ma perché vogliono raggiungere i loro cari che si trovano in altri paesi dell’Unione Europea senza restare imbrigliati nelle maglie del cosiddetto regolamento Dublino 3, o dell’ambigua promessa di ricollocamenti mai avviati realmente se non in pochissimi casi usati dal governo a fini propagandistici” e accusa l’Europa di usare “la retorica dell’accoglienza dei rifugiati per perseguire drammaticamente la sua guerra alle migrazioni dai Sud del mondo”. Conseguenze, secondo l’appello, “della messa in opera del sistema degli Hot Spot, che vede Lampedusa, ancora una volta, come luogo di sperimentazione dell’inasprimento delle politiche migratorie e di inedite violazioni dei diritti fondamentali”. Un rapporto di Oxfam, Asgi e A Buon Diritto e un’inchiesta de L’Espresso nel dicembre scorso hanno denunciato negli hotspot “gravi violazioni dei diritti umani” tra cui “interviste sommarie a persone ancora sotto shock” e “nessuna informazione circa la possibilità di richiedere protezione internazionale”.
Antonio Mazzeo ha pubblicato in queste ore un nuovo articolo sul suo sito nel quale documenta la situazione dei “minori non accompagnati” su quello che ha definito il “girone infernale di Messina”. Dichiara l’Arci, riporta l’articolo, “dai colloqui con i minori emergerebbe inoltre una gravissima violazione dei loro diritti. Nonostante la maggior parte di essi abbia manifestato la minore età e un minore è in possesso di certificazione anagrafica, operatori del centro avrebbero omesso la segnalazione. Sembrerebbe che l’avvocato della cooperativa gestore abbia dichiarato loro che dovranno segnalare la minore età nel luogo dove verranno trasferiti insieme agli adulti, poiché tale prassi non è prevista alla tendopoli. Alcuni di questi minori riferiscono di essere a Messina da oltre due mesi. Tutti hanno segnalato l’insalubrità della tendopoli, che più volte si è allagata in seguito al mal tempo, una carente assistenza sanitaria, nessuna assistenza da parte dei servizi sanitari territoriali, la mancanza di vestiario adeguato. Si evidenzia che dentro la tendopoli ma anche nell’altro centro realizzato nell’ex caserma Gasparro si sono ripetuti episodi violenti, rivolte e proteste”.
Indigna, come dovranno sempre indignare, ma purtroppo non ci si stupisce più. E’ una realtà che si ripete ininterrotta da ormai almeno un ventennio.
Popoff Quotidiano ha ripercorso alcune delle vicende di questi anni, dal Cpt “Serraino Vulpitta” di Trapani, teatro nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1999 di un terribile rogo nel quale trovarono la morte 3 migranti, al “Regina Pacis” di San Foca in Puglia ad altre. Quest’ultimo, gestito per anni da Cesare Lodeserto, chiuse definitivamente nel 2006 e la sua gestione è stata negli anni al centro di varie inchieste della magistratura e processi, che hanno visto assoluzioni e prescrizioni ma anche condanne per “sequestro di persona”, “minacce”, “truffa aggravata ai danni dello Stato” e “simulazione di reato”. Il regista Rai e giornalista indipendente Stefano Mencherini documentò la realtà del “Regina Pacis” nel documentario “Mare Nostrum”. Sono immagini e interviste che gridano da sole e nulla c’è da aggiungere.
Un riepilogo della vicenda, con gli ultimi aggiornamenti (Lodeserto in questi anni ha continuato la sua opera in Moldavia, collaborando anche con l’ambasciata italiana), è stato pubblicato in queste ore sul sito personale del giornalista indipendente e regista RAI.
Dieci anni dopo, Stefano Mencherini è tornato sul tema con “Schiavi-le rotte di nuove forme di sfruttamento” documentando come la situazione negli anni è solo ulteriormente peggiorata. Il documentario denuncia l’enorme spreco di denaro pubblico e le tantissime violazioni dei diritti umani dei migranti durante l’Emergenza Nord Africa del 2011, tramite un migrante che l’ha vissuto in prima persona, e riporta la notizia dell’unico processo in corso in tutta Europa (a Lecce) per riduzione in schiavitù contro datori di lavoro e caporali di Nardò.
Fuggito dalle squadre della morte in Costa d’Avorio, ridotto in schiavitù e vittima di violenza da parte di un proprietario terriero in Libia, nei mesi che precedono il crollo di Gheddafi il testimone del film parte per l’Italia, dove vede concludersi la sua odissea nei campi di angurie in Puglia non prima di aver conosciuto gli alberghi di Napoli utilizzati dal governo italiano come “centri di accoglienza” durante l’emergenza Nord Africa. Luoghi dove pasti sono stati serviti con cibo avariato, i migranti venivano sfruttati per lavori non pagati o coinvolti in giri di prostituzione e sfruttamento del lavoro. Un esodo che ricorda la crudeltà e la disumanità documentata da “Come un uomo sulla terra”.
Barbara Spinelli nel settembre scorso in un comunicato stampa espresse la sua disapprovazione per quanto stava accadendo al CIE di Ponte Galeria, il provvedimento di rimpatrio di venti ragazze nigeriane che metteva “a serio rischio” la loro vita. L’europarlamentare scrisse “Gli avvocati non sono stati ammessi ai colloqui con le ragazze. Le associazioni che hanno normalmente accesso al Cie non sono state messe nelle condizioni di appurare se le ragazze facciano parte del gruppo delle sessantasei nigeriane vittime di tratta rinchiuse da un mese e mezzo nel centro, per le quali nei giorni scorsi si è mobilitato anche il sindaco Ignazio Marino – tutte con visibili segni di violenza e alcune di ustione”.
La cronaca di questi anni è stracolma di altri episodi, denunciati e documentati.
Joy era una ragazza nigeriana detenuta nel Cie di Milano. Denunciò nel 2009 un tentativo di stupro, testimone la sua compagna di cella. Fu espulsa dall’Italia dopo aver ricevuto una denuncia per calunnia. Il 9 agosto dello stesso anno 300 migranti, quasi tutti somali, cercarono di fuggire dal lager di Benghazi, realizzato in Libia con finanziamenti italiani frutto degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi. Dopo la cieca repressione militare 6 migranti sono rimasti uccisi, esangui sul pavimento, e oltre 50 feriti(dal giorno dopo di almeno una decina non si hanno più notizia). Un testimone oculare raccontò a Fortress Europe che i feriti erano rimasti abbandonati sul pavimento sanguinanti per giorni, con tagli su gambe, braccia e testa. Alcuni avevano febbre e principi di infezioni. Non furono visitati da medici o delegati di organizzazioni internazionali.
L’anno prima le cronache riportarono la vicenda di Stephen, espulso dall’Italia dopo essersi anche brillantemente laureato, per reati mai commessi. Dopo sette anni di calvario giudiziario, era stato pienamente assolto, con la revisione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, dall’accusa di traffico internazionale di droga. Ma per i precedenti con la giustizia italiana fu espulso lo stesso.
Il 2 aprile 2004, dopo settimane di campagna mediatica nel quale la si trasformò nel crocevia di tutto il male del pianeta Terra, furono sgomberati gli occupanti di Via Adda 14 a Milano. I fatti di quel giorno furono al centro della campagna “Via Adda non si cancella”, che definì lo sgombero “un atto di violenza contro 300 lavoratori, disoccupati, donne e bambini, portato a termine da un’imponente operazione militare” col risultato di “condannare per 10 anni alla miseria oltre 150 persone deportate in Romania senza poter verificare la propria posizione in Italia; di spezzare interi nuclei familiari non riconoscendo validi i matrimoni rom, di rimandare altre 200 persone nella favela di via Triboniano permanentemente a rischio di sgombero”. Coloro che avevano i documenti “in regola”, denunciarono gli attivisti della campagna, ebbero come alternativa “il campo di concentramento di via Barzaghi, un luogo senza luce, con bagni chimici senz’acqua, un rubinetto per 70 persone, un muro di tre metri con filo spinato attorno, e un posto di blocco permanente che impedisce l’accesso ai non autorizzati”.