di Christian Elia
C’è stato il tempo della nascita del giornalismo di guerra, quello dei pionieri. E’ venuto poi quello letterario, come la guerra civile in Spagna, tra Orwell ed Hemingway, fino al tempo delle grandi firme, autentiche star, che in Vietnam hanno sperimentato e spinto la guerra in prima serata.
Dopo la caduta del muro di Berlino, sempre più, la guerra ha ceduto le prime pagine al ‘terrorismo’, inteso come problema domestico, visto che anche le guerre, in Iraq o in Afghanistan, venivano raccontate come guerre al terrorismo, una sorta di continuazione della sicurezza nazionale con altri massacri.
La guerra in Siria, invece, rischia di diventare la prima guerra raccontata solo con numeri. Sono ormai cinque anni che questo conflitto terribile continua: ha ucciso oltre 250mila persone fino al 2014, quando si è smesso di contarle. Ma gli ultimi dati Onu, parlano di 500mila morti, l’11 per cento della popolazione totale ha perso la vita o è stata ferita.
Una guerra che ha cancellato confini centenari e memorie di millenni, ha reso sfollati il 45 per cento della popolazione totale della Siria: tre milioni fuori, 6.3 milioni nel Paese.
Perché dopo i primi tre anni, di fatto, di reportage veri dal terreno se ne sono visti sempre meno. La sicurezza, prima di tutto. Sono tanti i giornalisti che hanno perso la vita in Siria. E l’implosione dei media, che ha costretto i freelance a lavorare in condizioni sempre più drammatiche, rischiando la pelle per quattro soldi.
Nell’ultimo periodo, poi, qualche corrispondenza da Damasco, dove la guerra si palesa in forma di autobomba, ma che il regime tiene saldamente. Ed ecco che allora, fatta eccezione per gruppi di impavidi che hanno scelto di raccontarsi da soli, come accade a Raqqa, pagando un prezzo molto alto in tante occasioni, di veri reportage per verificare chi muore sotto le bombe russe o del regime e altro non se ne sono più potuti leggere.
Ecco che un ruolo sempre maggiore, in questo contesto, hanno acquisito i prodotti digitali, il data journalism, le infografiche e i multimedia. Segnando, forse, una nuova fase del racconto dei conflitti.
Quelli che vi proponiamo, di seguito, sono quattro esempi eccellenti di questo genere di lavori, e molti altri ne abbiamo pubblicati in questi anni su Q Code Mag.
Il primo è The New Promised Land, progetto di UniVision e Fusion, che parte da una struttura in tre capitoli per ricostruire i passaggi della fuga per la vita: Revolution and War in Syria (sul conflitto), The Journey Through Europe (sulla fuga e sul viaggio) e The New Promised Land (sulla Germania e la richiesta di protezione internazionale).
All’interno di ogni capitolo testo, foto, audio e video per raccontare storie, volti, nomi, sogni.
Un altro è Syria Ceasefire Monitor, progetto della piattaforma SyriaDeeply, che si occupa di ricostruire e testimoniare, dalla rete e da fonti locali e internazionali, tutte le violazioni della tregua in Siria, che dovrebbe portare – in un tempo ancora indefinito – a un accordo di pace e alla fine delle ostilità.
Un altro prodotto davvero interessante è Fear of the Sky, sviluppato da Lamba Media Production per conto di Amnesty International e di una rete di attivisti per i diritti umani che operano sul terreno in Siria.
Attraverso un’esperienza di realtà aumentata, si può guardare con i proprio occhi gli effetti devastanti delle cosiddette ‘barrel bomb’, i barili bomba, che il regime sta utilizzando da anni. Quattro capitoli anche qui: Assad’s Denial, Welcome to Syria, Take Action, Explore. Dopo il tour virtuale nell’orrore, si chiama alla mobilitazione per far pressioni sulla comunità internazionale per porre fine a tutto questo.
Per concludere, dal New York Times, Signs of Hope Five Years After Start of Syria’s War di Anne Barnard, Maher Samaan e Derek Watkins. In occasione del quinto anniversario del conflitto, il Nyt ha pubblicato un longform che prova a elaborare un bilancio del cessate il fuoco entrato in vigore il 27 febbraio scorso.
Lavori eccellenti, che sono informazione oggi e memoria domani, ma che oltre tutto stanno riempiendo un silenzio assordante, stanno portando il lettore dove gli occhi del giornalista arrivano sempre meno. Non è tempo di pensare al meglio prima o meglio oggi, ma di prendere atto che la mutazione del giornalismo – di guerra e non solo – è inevitabile, forse necessaria. Solo che rischia di diventare inutile di fronte all’indifferenza.