Limiti, contorni e dittongo ai

Diario di una màistra precaria alle prese con l’insegnamento della lingua italiana a dei richiedenti asilo africani

di Maria Elena Seidenari

Sguardi bassi e molto silenzio. Braccia conserte e colpi di tosse, a riempire un poco il silenzio della stanza.
“Oggi sarà l’ultima lezione di italiano che farete con me, e sarà una lezione sul mondo del lavoro”.

Mi chiamo Maria Elena, e negli ultimi sei mesi ho visto un po’ di Africa tutti i giorni. Ho lavorato come educatore all’interno di un progetto di accoglienza richiedenti asilo: quindici persone provenienti dall’Africa Occidentale e attualmente residenti nella cittadina dove vivo. In mezzo (tra là e qui) c’è stata la fuga – una specie di zig zag tra i confini nazionali disegnati col righello dal passato coloniale, poi il deserto del Sahara attraversato pregando ogni giorno che “no, nessuno mi rapirà”, poi una pausa infinita passata a lavorare a Tripoli o in qualsiasi altra città costiera della Libia per pagarsi un viaggio in mare fino alle coste italiane. Su delle barche, che bisogna avere del coraggio a chiamarle barche.

Ma ora non importa questo. Dicci come si fa qui. Insegnaci l’italiano, Maria Elena.
Anzi no: insegnaci l’italiano, maestra.

Da subito sono stata ribattezzata “la maestra”, pur non avendo nulla di magistrale (se non una laurea in scienze politiche – apparentemente inservibile). Che poi, nessuno mi chiamava maestra: io ero la màistra. Le loro pronunce facevano a pugni con lo iato ae, e si accomodavano su un più famigliare e francofilo dittongo ai.

E la màistra, l’italiano, ci ha provato ad insegnarlo. Avendo bene in mente che la lingua che si parla è uno strumento per decodificare il mondo, o almeno il contesto che ci circonda, e che i limiti del mio linguaggio sono presumibilmente i limiti di quello che posso arrivare a conoscere. Allora ogni lezione è stata non solo una trasmissione di lessico e regole grammaticali, ma un tentativo di incontrarsi a metà strada.

Cosa vogliono dire inverno primavera estate autunno? In Burkina Faso c’è la fraîcheur et la chaleur (a quanto pare, si taglia via il fronzolo delle mezze stagioni).
Quando inizia la sera e quando inizia la notte?
Cosa hai detto che fa, il gatto? Le fusa? Da noi i gatti miagolano e basta.
Ma voi davvero mangiate le anguille?
A cosa hai detto che serve il pigiama?
Davvero in Italia gli uomini uccidono ancora così tante donne? Una ogni tre giorni? Non ci credo.
Quella cosa in bagno di fianco al water è un orinatoio, giusto?
Qual è la stagione della neve? La vedremo?

non capisco. non ho capito. per favore, ripeti.
ok, ça va.
torni domani, vero? quando facciamo la prossima lezione?

Poi, dopo sei mesi passati tutti così a fare e a farsi milioni di domande, a tentare di decolonizzarci a vicenda l’immaginario, un giorno arriva la doccia fredda. Per loro, per me, per chi con me paga un affitto.
“Il personale è ora sovradimensionato rispetto agli utenti e in questo momento non possiamo offrirti una posizione, mi dispiace molto. La cooperativa riconosce davvero quello che tu ha fatto fino a qui, ma ora non c’è possibilità di assunzione.”

La prima cosa a cui ho pensato non è stata “come farò a pagare le bollette?”, ma “e adesso come lo dico ai ragazzi?”. Ovviamente quello delle bollette era e rimane un problema, ma le loro facce interrogative e lo svanire di tutte le ore passate a parlare di grammatica italiana ed altre stregonerie mi sono parse, lì per lì, un problema più grande.

Ed eccomi lì, in un giorno assolato di fine gennaio, a fare uscire le parole nel minor tempo possibile, mentre dico: “Oggi sarà l’ultima lezione di italiano che farete con me, e sarà una lezione sul mondo del lavoro.”

Ci è voluto un po’ a perforare il silenzio. Anche io ho tenuto gli occhi bassi per qualche minuto, cercando nei miei piedi un briciolo di volontà per fare finta che fosse una lezione come tutte le altre.

Allora, dunque: contributi, infortuni sul lavoro, INAIL, centro per l’impiego, straordinari, turni, lavoro a ore, lavoro autonomo, lavoro part-time, lavoro precario. Ecco un po’ di lessico.

Cosa vuol dire lavoro precario?

“Vuol dire che la maistra è stata con voi per sei mesi, vi ha visto tutti i giorni, vi ha aiutato tutti i giorni e voi tutti i giorni avete aiutato lei, e dopo questi sei mesi non sa se sarà ancora con voi.”
Questa è la precarietà. Fare a meno del futuro, arrangiarsi senza. Vederselo sottrarre.
“Imparatelo bene, questo, perché penso vi sarà utile”. Voi in più avete una sfumatura della pelle che non aiuta.
Ma questo l’ho solo pensato.

Ho pensato molte altre cose mentre andavo via, dopo aver staccato il mio ultimo turno. Koné è sceso nel parcheggio e ha voluto guardarmi bene fino a quando la macchina non è scomparsa oltre il cortile. Mi sembrava di avere i contorni illuminati, tanto mi aveva fissato.E anche coi contorni illuminati ho continuato a pensare che non avevo mai meritato il titolo di maestra, né tanto meno quello più spensierato di màistra.

Avevo imparato molto di più di quanto insegnato. Rubato più di quanto lasciato.

Ho imparato che i pesci del Mediterraneo mangiano gli uomini annegati, ma anche quelli mezzi vivi. Che i gatti li trovi sempre rivolti verso La Mecca nelle ore della preghiera. Che le sirene esistono – ne hanno avvistate alcune senza vita sulle spiagge del Benin. Che per fare le abluzioni basta la sabbia, quando di acqua non se ne trova. Che non molti in Africa mangiano il pane, ma in Libia ne vanno pazzi. Che il deserto si può attraversare mangiando solo biscotti. Che puoi vedere persone morire di fianco a te, e andare avanti lo stesso – ma mai tornare indietro. Che i cacciatori dozo conoscono ogni pianta della foresta, come fosse un famigliare. Che pagare il governo ivoriano, maliano, turco, algerino per trattenere i migranti è una forma di colonialismo spudorato, ma travestito con la bandiera europea della lotta ai trafficanti. Che noi, un po’ tutti, ci accontentiamo di sapere ben poco dell’Islam (quasi niente).

Arrivata a casa, ero già più scontornata: avevo portato via troppe cose, che non potevano stare tutte dentro i miei bordi. I contorni luminosi si erano spenti. Si accendevano, invece, i riflettori sulle bollette.
Il telefono vibra. Messaggio: “Coucou Maria Elena? Tu reviens quand?
Avevo fatto attenzione a prendere tutto con me, ma avevo dimenticato qualcosa: una fine, semplicemente, non c’è. In realtà, non è nemmeno mai stata presa in considerazione.

 

Nell’immagine in apertura, Luigi Tenco, autore di “Cara maestra”, canzone del 1962.