tante voci, molti linguaggi, un’unica città
di Annalisa Bergantini
Ho camminato Gerusalemme per un giorno solo.
Era un giorno di metà novembre. Anzi, non era un giorno: era il 21 novembre del 2015.
Il giorno che mi ha portato lì, sette giorni dopo Parigi e il Bataclan. Ho camminato Gerusalemme un sabato. In un tempo che molti, ormai, avevano cominciato a chiamare “Intifada dei coltelli”. E prima di arrivare a Gerusalemme: Betlemme, Nablus, Hebron, per incrociare le storie di chi, con mille difficoltà, fa vivere la società civile della speranza. Una società civile, che ai controlli in aeroporto a Tel Aviv, è consigliato non menzionare, non portarne traccia, negare.
Ho desiderato con forza vedere Gerusalemme.
Le strade fitte e intricate che aiutano a perdersi, se hai gambe e occhi per stare al gioco. Un luogo modellato dal tempo imminente in cui ci cammini, che oggi è così, ed è diverso da come era ieri e da come sarà domani. Un luogo per me impregnato delle storie incontrate prima di entrarci, attaccate addosso come colore su un muro. Desiderio misto al timore e all’indicibile curiosità che ti sobbalzano nello stomaco mentre raggiungi la città.
Anch’io con quella cantilena d’infanzia che girellava nella testa. “Io vengo da Gerusalemme, senza ride e senza piagne”, come lo dicevamo noi da ragazzini con le ginocchia a terra, sbellicandoci dalle risate. Una Gerusalemme di cui sapevo troppo poco, ma che sentivo come la possibilità unica di trovarmi per un giorno al centro del mondo. Anche se tutti dicevano di stare attenti, dopo i morti, gli scontri e il gas della Betlemme di quei giorni.
Per andare da Betlemme a Tel Aviv, Gerusalemme la devi attraversare. Devi aspettare un bus ad una fermata non proprio riconoscibile, in una strada palestinese appena sopra quella israeliana protetta da muri mastodontici, e devi corrergli dietro per salirci al volo. Devi passare il check-point presidiato dai soldati israeliani giovanissimi, dove a noi – passeggeri dal passaporto europeo – non è richiesto scendere. E devi arrivare alla porta di Damasco di Gerusalemme, da dove puoi prendere un bus-sherut che ti porti verso l’aeroporto di verso Tel Aviv.
Insomma, a Gerusalemme ti devi fermare. Ma al centro del mondo, non puoi solo passarci per cambiare un bus. O almeno, è questo che avevo deciso.
E così ho camminato Gerusalemme un giorno, col passo di una viaggiatrice qualunque. Scattando una foto nel Suq a una signora seduta a terra che vendeva verdure, e alle distese di spezie colorate sui banconi di legno. Ho bevuto il melograno spremuto fresco buonissimo, e ho comprato tutte le spezie che potevo con gli ultimi sheqel rimasti in tasca.
Mi sono sbalordita di fronte alla maestosità della Spianata delle Moschee. E mi sono raccolta in silenzio e con gli occhi aperti, tra le donne in preghiera al muro del pianto. Sono fuggita veloce dal fitto calpestio di piedi nella Basilica del Santo Sepolcro, incantandomi solo al levarsi inaspettato dei canti di alcune pellegrine polacche, che incedevano verso la roccia sacra.
Ho camminato Gerusalemme una sera di novembre.
Col passo veloce sulle strade larghe del quartiere ebraico, alla ricerca tardiva di un ristorante che non si trovava. Ho esitato a chiedere informazioni alla giovane coppia col passeggino davanti a me, che a sentire il mio passo veloce dietro di sé, ha accelerato di più. Per sbrigarsi a tornare a casa, per non avere gente dietro alle spalle.
E poi sono finita ad un concerto, invitata da un ragazzo di lì, dove la gente si stava divertendo tra musica e birra, e sembrava un altro mondo. Talmente lontano dalla Palestina vista nei giorni prima, che non capivo come potesse essere. E intanto la festa continuava, e mentre pensavo che la scelta di Elena di non bere la birra israeliana fosse eccessiva, speravo che non ci fosse un attentato proprio lì quella sera.
E alla fine del solo giorno in cui ho camminato Gerusalemme, mi restano le domande e i perché.
Perché Hamdan, che è nato e vive a Betlemme, ad appena dieci chilometri da lì, non può camminare Gerusalemme e sbalordirsi come ho fatto io? Perché deve passare per infinite pratiche e permessi di poche ore, quasi mai concessi? Perché Hamdan, che è di Betlemme, non può alzarsi una mattina e decidere liberamente di voler portare la sua risata contagiosa tra i vicoli stretti e le spezie profumate di Gerusalemme?
“L’immagine di te
L’immagine
Che il desiderio
Non fa spegnere”.
L’immagine di te – Radiodervish