Una narrazione collettiva, tante voci, molti linguaggi, un’unica città
di Stefano Turrini
Per molti anni Gerusalemme è stata per me un’immagine vaga, ma allo stesso tempo mitica. L’idea che ne avevo era il frutto di ore di catechesi e dell’annoiato ascolto del vangelo nelle messe domenicali che in passato frequentavo con mamma e papà.
I colori, i rumori, i profumi con cui nella mia testa la riempivo di fascino esotico, erano quelli che potevo riconoscere dai film che vidi (alcuni molto belli) dedicati alla vita di Cristo e dei suoi discepoli in Terra Santa. La mia Gerusalemme era dunque la somma di tanti spazi scenici. Era il palco su cui si alternavano rappresentazioni teatrali aventi sempre gli stessi attori.
Ancorata ad una narrazione di 2000 anni fa, la mia Gerusalemme di bambino era una città di cartone dipinta a tempera, magnifica come quella delle favole e per questo irraggiungibile. La sentivo lontana nel tempo e per quanto riguarda lo spazio, beh…per me poteva essere ovunque, come Atlantide. Anzi, avrebbe potuto pure non esistere e limitarsi ad essere una bella immagine nella testa di un bambino desideroso di racconti.
Certo in quegli anni non avevo ancora consapevolezza delle porte che si possono aprire (e chiudere) nella vita. A dire il vero non prendevo nemmeno in seria considerazione il fatto che prima o poi sarei cresciuto.
Fatto sta che poi questo è successo, ebbene sì (chi l’avrebbe mai detto?!), e con me pure la mia Gerusalemme si è trasformata. L’immagine che ne avevo è diventata più completa.
Si è arricchita di odori, non solo di piacevoli profumi; i panni e le spezie che ne coloravano i mercati hanno assunto mille sfumature; le vie strette della città hanno iniziato a presentarsi vissute, a volte sporche, ma sempre megafono di tante lingue che non ero in grado di riconoscere; infine i muri delle case si sono riempiti di storie ed eventi che prima non conoscevo.
Le emozioni che un bambino usa nel dipingere i suoi pensieri, crescendo, vengono spesso sostituite dal pennello dell’esperienza ed il quadro cambia. La mia Gerusalemme si faceva così sempre più complessa, ma non ancora complicata. Nonostante non vi avessi ancora messo piede, questa città andava riempiendosi di quei particolari che la riguardavano – e che avevo appreso nel tempo – e di quelli che invece mi sarei aspettato di trovare, frutto dei racconti di chi a Gerusalemme ci era stato.
Attraverso i loro racconti la mia Gerusalemme poteva ora confrontarsi con quella reale. Così, pian piano, essa si fece idealmente di pietra, assunse un peso (e che peso!) e l’immaginario solamente religioso che l’aveva da sempre valorizzata si affiancò – non venne sostituito! – ad un altro immaginario, quello politico.
Alla soglia dei vent’anni la Gerusalemme che avevo in mente non era più quel vivace, ma semplice, dipinto del passato. Non la capivo più. Le troppe storie con cui la stavo caratterizzando rischiavano di farla esplodere. Le cornici di quel dipinto, dopo alcune iniziali crepe, erano andate frantumandosi in mille pezzi aprendo così la mia Gerusalemme ad un contesto storico e geografico che le avevo sempre negato.
Con forza è entrata in scena una miriade di nuovi attori, spesso così diversi da far credere che il loro ruolo dovesse appartenere ad un’altra storia. Il copione che avevo era troppo ristretto per comprendere come tutti quegli attori potessero recitare sullo stesso palco. Avevo bisogno della stesura di un nuovo testo che fosse capace di rincorrere la storia, non che la determinasse, che fosse inoltre flessibile e passibile di continue correzioni.
Purtroppo però, pareva che a maggior studio corrispondesse anche una maggiore complicazione del quadro. Leggere la storia di quella terra e studiarne i protagonisti (compito già discretamente complesso) veniva infatti reso ancor più arduo dalla consapevolezza che nessuna analisi avrebbe potuto ridursi ad una lettura materialistica degli avvenimenti ed omettere la rilevanza di questioni più attinenti alla sfera spirituale e simbolica.
Fortunatamente, la preoccupazione di essere sopraffatti dalla complessità, che avrebbe potuto trasformarsi in disinteresse, divenne invece stimolo a mettersi in gioco, ad essere sempre più curioso… “Avere vent’anni è avere sogni grandi…”
Sono arrivato a Gerusalemme a notte fonda, accerchiato dal buio, con gli occhi stanchi e il calo di tensione post-prestazione aereoportuale.
Ricordo di aver fatto un gran respiro appena sceso dal nesher ed essermi trovato in una strada anonima, vuota a quell’ora, illuminata più dal pallore delle abitazioni che dalla luce dei lampioni. Solo, dopo vari controlli e spostamenti per raggiungere la città, apprezzavo quell’aria tutta nuova respirandola a ritmo cadenzato e col sorriso stampato in faccia. Il mattino seguente, il sorgere del sole mi avrebbe solleticato gli occhi e fatto svegliare. Avrei avuto davanti una bellissima giornata di fine marzo a Gerusalemme.
Gerusalemme non avrebbe potuto darmi di più. Questa città ha significato per me il lasciar da parte antiche convinzioni. Mi ha costretto ad aprirmi a nuovi dialoghi, a cercare di comprendere immaginari differenti, osservare nuovi dipinti ed entrare nei teatri mentali di altri individui, farmi spiegare come loro avrebbero modificato la scena ed il ruolo degli attori coinvolti. Certo, non sempre tutte le narrazioni mi hanno convinto, ma ho fatto lo sforzo di riuscire a comprenderle, anche nei loro risvolti più mostruosi.
La Gerusalemme che ho ora in mente è una città di tutti, anche se è meglio dire di nessuno. Plasmata da una spiritualità fattasi concreta e caratterizzata da un’inclusione escludente, è una città vittima di chi la vuole trasformare nella realizzazione del proprio immaginario.
Gerusalemme dovrebbe invece servire da faro capace di illuminare le contraddizioni del nostro tempo e permetterci di ricalibrare i nostri immaginari.
Speriamo dunque che la complessità delle relazioni umane che la fanno vivere sia capace di resistere all’omologazione, all’imposizione di una sola disciplina. Auguriamoci di non riuscire mai a prevedere le mosse degli attori in scena.