Una narrazione collettiva, tante voci, molti linguaggi, un’unica città
di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Center of Life, centro di vita, è il nome della disposizione della municipalità di Gerusalemme che regola il permesso di residenza dei palestinesi gerosolimitani: dimostrare che Gerusalemme è il centro della loro vita, tramite presentazione di bollette pagate, iscrizioni scolastiche, certificazioni varie, equivale al “permesso” per poter vivere, non da cittadini, si intende, lì dove si è nati.
La blue ID, la carta celeste che distingue un Palestinian permanent resident, residente permanente, dagli altri palestinesi (di Gaza, della West Bank), e dai cittadini israeliani, è quanto di più prezioso e pesante un palestinese possa avere. Prezioso, perché garantisce l’accesso ai servizi municipali, che però a est sono decisamente più scarsi che a ovest, e pesante come un fardello, poiché ti obbliga a lottare per rimanere lì, nel bene e nel male, perché se te ne vai qualcuno potrebbe prendere il tuo posto.
Gerusalemme è opprimente per tanti. Per chi ci vive obbligato, per chi invece, come i palestinesi residenti in West Bank o Gaza o all’estero, non vi può metter piede, se non attraverso un permesso che non verrà mai rilasciato.
Un sogno insomma non poi così leggero, piuttosto quasi irrealizzabile e persino mitizzato, che si scontra con la dura e crudele realtà della vita quotidiana, tra controlli a tappeto, scontri del venerdì in città vecchia, soldati ad ogni angolo e il costante sentimento di doversi guadagnare un diritto che in altri luoghi del mondo è acquisito ed intoccabile.
Nonostante questo, o forse come estrema e spontanea forma di resilienza, Gerusalemme vive di vita propria, di energia, di luce, di quotidianità, di confusione del mercato di Damascus Gate, quello che il sabato devi saltellare tra i cesti di pomodori e quelli di verze, schivare un negoziante che urla i prezzi delle verdure, per arrivare alla città vecchia, il magico microcosmo, nucleo originario di un luogo che nessun conflitto potrà mai fermare.
E’ in città vecchia, come nella canzone di Fabrizio De André, “dove il sole del buon Dio – o di tutti gli dèi – non dà i suoi raggi”, che Gerusalemme si rivela in tutto il suo splendore, offrendo pezzi di vita che raramente possono essere dimenticati.
È nei vicoli non battuti dalle viae crucis dei pellegrini, o dai religiosi di tutte religioni che accorrono a pregare sulle pietre sante, che si vive veramente. Nelle stradine di Borj el Laqlaq, dove l’elettricità arriva attraverso fili malamente collegati e si vive in dieci in due stanze, ma non si lascia mai vuota la propria casa nemmeno per un minuto. Però si lasciano i pezzi di pane sui muretti per i viandanti, perché nessuno a Gerusalemme è straniero, e a tutti viene offerta ospitalità.
Si vive nelle stradine che brulicano di venditori di pietre e stoffe nel quartiere cristiano, negozianti che sono lì da un’eternità e ti raccontano di tutte le loro vicissitudini, di chi ha chiuso, chi ha aperto, chi nel frattempo ha fatto sei figli. Si vive osservando le diciassette civiltà che si sono succedute nei secoli e che hanno lasciato il segno nelle pietre bianche, dal cardo romano sotterraneo alle porte mamelucche degli antichi hammam e delle scuole coraniche. Si vede anche la civiltà attuale, quella fatta di filo spinato e telecamere e bandiere e soldati. Quella, proprio non si può non vedere. Si vive annusando il profumo dei mazzi di menta delle signore sedute sui gradini del mercato, tutti i santi giorni, stagione dopo stagione, a vendere i mazzetti di ravanelli, le olive imbottigliate, le foglie di vite per fare gli involtini.
E’ stata questa energia vitale ad aver ispirato i miei Diari Palestinesi, ad avermi illuminato – sulla porta di Damasco, in questo caso – sul fatto che vivere, e vivere dignitosamente, sia la vera vittoria sulla morte, sulla distruzione, sull’umiliazione.
Alle politiche del fatto compiuto, per cui ti svegli la mattina con un ordine di demolizione, con una nuova bandiera al posto della casa del vicino, con una nuova procedura, si risponde con il fatto più compiuto che possa esistere: continuare quello che si sta facendo. Dalla fila alla posta ai matrimoni, dall’autolavaggio agli eventi in libreria.
La mia stessa vita gerosolimitana diventava così, su insegnamento dei gerosolimitani stessi, l’antidoto al nervosismo quotidiano, alla tensione che si respira ad ogni angolo e si potrebbe tagliare con il coltello in alcuni giorni, alla noia e alla frustrazione di non vedere mai una prospettiva di cambiamento. E se la mia vita a cinque stelle, poiché dotata di visto di residenza e un passaporto che mi permetteva di viaggiare ad est ed a ovest del muro, aveva questo più o meno pacificante effetto, di quelli che la sera ti fanno andare a dormire convinto e sereno di “avere il cuore dalla parte giusta”, penso a quanto sia importante la dignitosa sopravvivenza, “surviving with dignity”, di ognuno degli abitanti della straziata città della pace. Soprattutto quelli per cui il centro di vita non è una scelta, ma una necessità, e per di più imposta.
Ecco perché la Gerusalemme dalle mille voci e dalle mille vite e identità non può essere ignorata, né dimenticata, né messa su uno scaffale sotto una bolla di vetro a prendere polvere, illudendosi che la sua magia sia anche la sua assoluzione, che basta così.
Gerusalemme vive con le sue voci, le sue persone, le sue identità, se le sue voci, persone, identità sono libere, ed uguali.
Gerusalemme, intesa come centro di vita, è un patrimonio collettivo da difendere con i denti dalle conquiste politiche e bandiere religiose, dalla mono-identità imposta e dal colonialismo culturale, dalla violenza di stato, dalla perdita di speranza di chi ci vive impossibilitato a vivere, dai palazzi che stanno nascendo nel quartiere antico del compound russo, oramai famoso solo per la tristemente nota prigione dove, in barba ad ogni norma di diritto, i bambini palestinesi subiscono interrogatori dalle modalità legalmente ed eticamente intollerabili.
Gerusalemme ancora non è il libero centro di vita per tanti, che pur avendone diritto la vivono solo attraverso la violenza quotidiana e la lotta per la sopravvivenza, prima ancora che per la dignità, ma che hanno scelto la vita come forma più pacifica e invincibile di resistenza. Anche a Gerusalemme-Centro-di-Vita, “we teach life, sir”.