di Andrea Staid
L’acqua è una risorsa primaria per l’esistenza umana, è un bene comune che appartiene a tutti. Eppure, non per tutti nel mondo è una cosa facile accedere a dell’acqua potabile in modo veloce e gratuito. Purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescente tendenza alla privatizzazione di questo bene primario, l’acqua sta diventando sempre di più una merce. Una merce controllata non dalle comunità locali ma dai poteri forti, economici e politici.
Da poche settimane è uscito un video documentario particolarmente interessante girato da una squadra internazionale composta da Michele Bertelli, Javier Sauras e Felix Lill, che ci racconta i problemi della popolazione Boliviana con l’acqua. In questo webdoc interattivo l’utente si cala in mezzo alla popolazione per conoscere la sua lotta contro privatizzazioni, inquinamento e povertà nel paese sudamericano. Per le pagine di Q Code Mag ho incontrato e intervistato uno dei registi Michele Bertelli.
Quando e perché avete iniziato un lavoro sul problema dell’acqua? Perché in Bolivia?
L’acqua è l’elemento essenziale allo sviluppo della vita stessa, e proprio per questo rappresenta una prospettiva unica attraverso cui guardare i conflitti che si sviluppano a causa della sua scarsa distribuzione. Poi bisogna chiedersi se la mancanza di accesso sia dovuto a causa naturali o a iniquità sociali e politiche.
Da questo punto di vista, nessun paese come la Bolivia è stato teatro di una continua battaglia per garantirne l’accesso a ogni fascia sociale e a ogni latitudine. Se da una quindicina di anni si è tornati a parlare di acqua come bene comune, è dovuto proprio alla sollevazione che, nell’Aprile del 2000, catapultò i cittadini di una sperduta città di un paese nel cuore dell’America latina su tutti i media internazionali. Allora gli abitanti di Cochabamba si rivoltarono contro la privatizzazione della loro compagnia municipale, e bloccarono le strade della città per mesi.
Bolivia’s everyday water war nasce per cercare di capire se le promesse di allora siano state mantenute o tradite, ma anche di spiegare come il rapido sviluppo economico del paese abbia influito sulle sue risorse naturali natura, e quali siano stati gli atteggiamenti del primo governo indigeno del paese sulla tanto sbandierata Pachamama, la madre terra nella cultura Aymara.
L’utilizzo dei beni comuni, la relazione con l’ambiente, l’impatto delle attività produttive: temi che riguardano ogni angolo del mondo, e su chi crediamo sia importante mantenere un dialogo internazionale.
Come spesso accade, l’idea è nata da un viaggio. Nell’estate del 2013 ero in Bolivia con il fotoreporter Javier Sauras per lavorare ad alcuni reportage. Devi sapere che l’argomento di conversazione ricorrente con chiunque nel paese è il Bolivar (la squadra di calcio di La Paz) e la sua opinione Evo Morales. Ora, pensa che senza la “Guerra dell’acqua” del 2000 Evo Morales non sarebbe probabilmente mai esistito.
L’idea del webdoc nasce poi da varie considerazioni. La prima è che tutte le storie che hanno a che vedere con lo sviluppo economico, la povertà e le disuguaglianze suscitano come prima reazione lo sbadiglio. Leggi che delle persone sono costrette a bere acqua da un fiume contaminato e in tre secondi hai cliccato sull’articolo successivo. Mi rifiuto però di credere che se vedi un uomo percorrere tre chilometri perché la sua unica acqua è un fiume fangoso, questo non ti smuovo qualcosa. Credo che l’immagine possa costringere a fermarsi, anche solo per un secondo. Poi sono cosciente di tutti le contraddizioni che questo discorso porta con sé: la spettacolarizzazione, la superficialità, la ricerca dell’eccesso. Penso però che il rischio valga la candela.
Inoltre, se lavori con le foto o i video, sul campo sei costretto ad andarci e vedere le cose con i tuoi occhi, non puoi scrivere di qualcosa che hai sentito di seconda mano dalla scrivania della tua redazione.
Dopiché, il nostro è soprattutto un webdoc, ma non solo: sotto l’ombrello del progetto Bolivia’s everyday water war sono stati pubblicati articoli su magazine come Der Spiegel e Internazionale, siti online come El Pais o Narrative.ly, quotidiani tedeschi come Die Zeit. Crediamo che sia una storia che merita di essere raccontata in tutte le sue forme.
Chi siete? Presentatevi velocemente per i lettori di Q Code…
Bolivia’s everyday water war è il frutto di un lavoro di squadra: alla base c’è un nucleo di tre giornalisti, io, Javier Sauras e Felix Lill. A parte l’evidente richiamo alle barzellette, in cui ci sono sempre un italiano, uno spagnolo e un tedesco, io mi occupo della parte video, Javier dellla parte fotografica, e Felix è una macchina per produrre articoli. Insieme passiamo infinite ore a discutere del taglio e del senso delle storie su cui lavoriamo.
Per creare un prodotto interattivo c’è però bisogno di una serie di capacità e conoscenze davvero variegate, e così attorno a noi si sono aggiunti vari professionisti, che hanno dovuto sopportare per mesi le mie infinite telefonate alle ore più improbabili.
Il collettivo Data Ninja si è occupato della ricerca e sulla visualizzazione dei dati, Celia Perez Martina e Genciano Pedriel li abbiamo conosciuti in un viaggio sul retro di un pick up nella provincia di La Paz e si sono occupati della colonna sonora e della postproduzione audio, Francesca Canzi è una brava grafica di Milano che si è occupata di tutte le animazioni. L’ultimo che abbiamo imbarcato è stato Diego Martinez, che ha gestito la comunicazione digitale del webdoc, cercando di aprire uno spiraglio tutto per noi nel caotico mondo dei social media.
Quanto ci avete messo per girarlo? Che importanza ha il tempo passato sul campo per voi videomaker?
Le riprese sono durate circa due mesi. Siamo partiti per la Bolivia in agosto 2014, e lì ci siamo fermati fino a metà Ottobre, data delle elezioni generali boliviane.
Il tempo passato sul campo è per me fondamentale nel racconto della realtà, ma è anche il peggior nemico. Perché è inutile nasconderselo, in un’epoca in cui l’informazione è sempre più disintermediata, e il giornalismo si basa sempre più su cura e selezione di fatti raccolti da altri, è già un miracolo poterci andare sul campo. Però sono convinto che uno sguardo altro, esterno, e qualcuno che faccia le domande dell’idiota di turno, apportino qualcosa in più. Ma è sempre una corsa contro il tempo e contro il proprio budget, e normalmente si è costretti a scappare appena si ha la sensazione di aver raccolto il materiale sufficiente.
Quindi fa la differenza avere il tempo? è sinonimo di qualità?
Sicuramente, e ancor di più in un progetto documentario. La camera è sempre un elemento fastidioso, invasivo. Il tempo permette di occultarlo, di far fluire le cose in maniera più naturale, di provare a raccontare le persone, oltre che le loro storie. Aiuta a far emergere contraddizioni e a testimoniare, almeno in parte, quello che vivono sulla loro pelle.
Soprattutto in Bolivia, in un contesto in cui buona parte della popolazione non è costantemente a contatto con i media e le immagini, è necessario costruire una relazione di fiducia per fare un buon lavoro.
E a volte, purtroppo, ci è anche capitato di dover abbandonare alcune idee proprio perché i margini temporali per costruire quella fiducia non erano sufficienti.
Da questo punto di vista, però, fanno la differenza anche i comportamenti. Le comunità aymara dell’altipiano, per esempio, seguono un rituale molto importante quando ricevono ospiti. Ci si saluta tutti, uno per uno, e spesso si mangia qualcosa insieme. Seguire i tempi e i costumi locali è fondamentale, se si vuole cercare di stabilire una relazione di fiducia. Dal punto di vista giornalistico, poi, avere più tempo significa la possibilità di consultare fonti diverse e contrastarle tra di loro, che è poi il fondamento di questo mestiere.
Ho trovato molto interessante l’idea di renderlo interattivo, spiegateci il perché di questa scelta.
Il web ha dilatato le nostre possibilità di accedere alle informazioni, ma allo stesso ne hanno contratto i tempi. Sembra che l’unico racconto della realtà possibile sia frenetico, il mordi e fuggi dei 150 caratteri di twitter, senza avere tempo e spazio di approfondire. Ma il digitale ha scompaginato anche tutte le carte, aprendo possibilità di commistione fra formati prima inesistenti, e dando l’ultima parola all’utente che smette di essere solo un fruitore passivo. In questo scenario, la nostra scommessa è cercare di elaborare una forma di narrazione e informazione che vada oltre la notizia o l’evento che accade e viene fagocitato in pochi minuti, e che permetta invece di approfondire la realtà, di svelarne i lati controversi. Per far questo non basta (secondo noi) riproporre semplicemente forme appartenenti ad altri media, occorre provare a sviluppare linguaggi nuovi, che mettano l’utente al centro. E’ da lì che è nata l’idea di creare un prodotto interattivo.
Raccontate ai lettori (senza dire tutto) come avete suddiviso il vostro lavoro e quali sono i personaggi su i quali ruota il vostro lavoro.
Ho trovato particolarmente interessante il discorso su una gestione pubblica e comunitaria dell’acqua senza una presenza statale, una vera e propria autogestione delle risorse naturali.
Sono tre i personaggi principali che l’utente può scegliere di seguire: Marcela racconta la guerra dell’acqua da dove è cominciata, la città di Cochabamba, che nel 2015 fu scossa da mesi di sollevazione popolare in opposizione alla privatizzazione della compagnia locale di servizio idrico. Ciononostante, oggi ancora molti quartieri nelle periferie della città soffrono di un approvvigionamento idrico carente e reti fognarie inesistenti. E allora Marcela ci accompagna anche nell’esperienza dei comitati idrici di quartieri, che, stanchi dell’infinita attesa di un aiuto governativo, hanno iniziato a organizzarsi da soli per creare i propri sistemi di distribuzione. Realtà frammentata e variegata, spesso legate a singole figure, che hanno ottenuto risultati molti diversi tra di loro.
Da lì il passo successivo è Santa Cruz, dove seguiamo José Barros a Plan 3000, il quartiere storicamente più povero della città, in cui è una piccola cooperativa a occuparsi dell’approvvigionamento idrico dei suoi abitanti. Santa Cruz è infatti caratterizzata da enormi contraddizioni: oggi cuore economico del paese, negli anni ’60 era una cittadina in rapida espansione ma completamente al di fuori della regolamentazione e degli aiuti pubblici.
Infine Jacinto Sirpa Condori rappresenta sicuramente il lato più amaro della nostra storia: agricoltore delle terre dell’altopiano, a 62 anni non ha mai avuto una fonte pulita a cui poter attingere, e nel documentario lo abbiamo seguito nel suo percorso quotidiano per approvvigionarsi di acqua. Oggi Jacinto è però diventato Uma Mallku, ovvero responsabile dell’acqua per tutta la sua comunità, e in un contesto di povertà estrema sta cercando le risorse per perforare un pozzo da cui poter finalmente soddisfare le necessità della comunità.
Tre storie molto diverse tra loro per caratteristiche, ambientazione e problemi, ma che sfatano un luogo comune ancora molto ricorrente quando si parla di cooperazione e sviluppo, e cioè che le popolazioni locali siano soggetti passivi che aspettano gli aiuti occidentali pronti a calare dal cielo.
In BEWW invece è chiaro come, in tre modi molti diversi, tutti e tre i protagonisti si siano fatti carico per primi delle necessità che li riguardavano e abbiano agito di conseguenza, senza aspettare nessuno. Questo non significa, ovviamente, che non ci sia un contesto di oggettivo scarsità di risorse e difficoltà economiche bisognoso della solidarietà internazionale.
Siete già al lavoro per il prossimo?
Siamo appena ritornati da un nuovo viaggio in Bolivia in cui abbiamo completato le ricerche per Mother and Children first, il nostro prossimo lavoro. E’ di nuovo un progetto interattivo, in cui abbiamo cercato di occuparci di un tema più intimo, ma dalle conseguenze ancor più drammatiche: il parto e l’altissimo tasso di mortalità materna della Bolivia.
Nelle comunità rurali e povere del paese, infatti, le donne muoiono perché non possono o non vogliono farsi ricoverare in una moderna struttura ospedaliera.
In molti casi le descrivono come oppressive e non rispettose della loro cultura. E’ quindi un lavoro che prova ad interrogarsi su quale relazione possa esistere tra le tradizioni ancestrali indigene e le scienze (in questo caso la medicina) occidentali e si chiede se l’idea di “intercultura” tanto sbandierata nei discorsi ufficiali sia stata davvero messa in pratica. Questa è sicuramente una delle sfide ancora aperte dell’era Morales e ruota tutta in buona parte al ruolo delle levatrici tradizionali che vanno di comunità in comunità nelle aree rurali del paese. I primo articoli multimediali dovrebbero uscire tra qualche settimana, ma per notizie certe ti rimando alla pagina Facebook di questo nuovo progetto.