di Sandro Bozzolo
I maasai sono un popolo pastore che vive sugli altopiani tra il Kenya e la Tanzania. Qualcuno sa che vestono di rosso, che quando danzano saltano in modo buffo, che sono stati temibili guerrieri. Altri – anche nello stesso Kenya – li immaginano come un popolo “selvaggio”, ancorato a tradizioni antiche, conosciuti soprattutto per praticare la mutilazione genitale femminile, e per questo vengono discriminati e, in un certo senso, disprezzati.
Eppure, per uno strano paradosso, il riflesso della storia di questo popolo antico e fiero riscuote un certo appeal presso l’opinione pubblica contemporanea, che ne ha fatto un simbolo di resistenza riconosciuto in tutto il mondo. Sotto una prospettiva di marketing, i maasai, con la loro idiosincrasia vera o presunta, potrebbero essere considerati come una delle comunità più iconiche del XXI secolo. La loro presenza estetica è davvero sopravvissuta all’epoca post-coloniale e ha contribuito a creare una sorta di marchio oggi sfruttato dal governo del Kenya. A Nairobi e nelle principali città, i simboli maasai sono ostentati ad uso e consumo dei turisti in cerca di quel “sapore selvaggio” di cui i safari sono l’emblema, ma rappresentano solo la punta visibile di uno scontro interculturale complesso e contradditorio, giocato da istituzioni governative assenti o spesso dichiaratamente ostili verso il maasai way of life.
Il viaggio di Leah
Dal mio punto di vista, “maasai” è stato, prima di tutto, uno di quei nomi del mondo che ti restano appiccicati sulla pelle quando sei bambino: nomi che incontri sfogliando i libri di geografia, parole che si portano addosso anche un odore, immagini immaginate che non se ne andranno più. Un altro di questi, ad esempio, per me fu Ulaanbaatar, l’ultima capitale della Mongolia.
Così, quando nel 2013, in occasione di un viaggio a Nairobi, ho conosciuto Leah – una ragazza proveniente dalle comunità maasai di Loitokitok – ho deciso di saperne di più. Dal nostro incontro sono nati un film e un libro e un dibattito mai risolto giocato sul motivo del cosa significa essere maasai. Dopotutto, Leah oggi è una studentessa in un’università italiana, colora con la bandiera francese il suo profilo su Facebook in tempi di Bataclan e gradisce molto lo spritz. Allo stesso tempo, però, è profondamente legata alla sua cultura di origine, che considera “un qualcosa che mi rende in qualche modo unica”.
L’occasione per entrare nel nocciolo della questione si è presentata nel dicembre 2015, quando Leah, per la prima volta dopo il suo arrivo in Italia, ha avuto occasione di tornare nel suo villaggio per passare le feste. Senza pensarci due volte ho deciso di seguirla nel suo viaggio verso le regioni di Loitokitok e di Lenksim, all’ombra delle grandi vette vulcaniche del Kibo e del Mawenzi, che insieme formano il massiccio del Kilimanjaro.
Uomini avvolti nei mantelli rossi che avanzano appoggiati ai loro bastoni, donne adorne di gioielli e colori, lobi delle orecchie allungati e annodati su se stessi.
La famiglia di Leah è un’istituzione di tutto rispetto. È composta da un padre che, rimasto orfano da bambino, ha sofferto la fame e si è ripromesso che i suoi figli non avrebbero vissuto la stessa sorte. Ha lavorato sodo, ha gestito al meglio il gregge e nei momenti di maggior prosperità ha avuto più di tremila animali. A quel punto ha sposato diverse donne, perché se qualcosa di brutto gli fosse accaduto, nessuna vedova sarebbe rimasta sola, nessun figlio sarebbe rimasto orfano. Così oggi Leah – che al suo villaggio non è Leah ma utilizza il suo nome maasai – ha più di quaranta fratelli, e sebbene non tutti possano essere presenti nel periodo natalizio, intorno a noi c’è comunque un discreto traffico.
Il mondo dei morán
I maasai non allevano polli e non mangiano maiale. Allevano solamente capre, pecore e vitelli, “animali con le corna, che in qualche modo si possono difendere”. Di questi animali talvolta bevono il sangue, mischiato con il latte, per accompagnare i passaggi più importanti della vita di un uomo o di una donna: la nascita, il passaggio all’età adulta, il matrimonio, le nuove nascite.
Non si celebra nessun funerale: storicamente i maasai sono un popolo nomade, e per rendere possibile la continua transumanza, la terra deve rimanere leggera.
Esiste inoltre un preciso e complesso codice di comportamento per definire le interazioni quotidiane, anche le più semplici, tra uomini e donne e tra uomini e donne di età diverse. I maasai si salutano offrendo il capo in segno di rispetto sulla base di queste gerarchie. Il padre di Leah appartiene a una fascia di età di cui è rimasto l’unico rappresentante. Nessuno sa quanti anni abbia per davvero, si sa solo che quando il Kenya ottenne l’indipendenza aveva già sposato tre delle sue cinque mogli.
Il sistema culturale maasai si basa su profonde relazioni di rispetto. Verso gli animali con le corna, verso il territorio circostante, verso gli esseri umani tra loro. Per questo, al contrario di quanto accade in altre regioni dell’Africa, i bambini rimangono discreti anche quando si trovano di fronte a qualcosa che non hanno mai visto, come un tipo bianco. Per questo, al contrario di quanto è accaduto in altre regioni del Kenya, nei territori maasai la fauna selvaggia si è conservata intatta. Eppure, come accade in altre regioni del Kenya e dell’Africa, anche tra i maasai metà della popolazione si è riservata un ruolo privilegiato nella scala di questo rispetto. Si tratta degli uomini, pastori e guerrieri, degli uomini “morán”.
Si diventa morán nel giorno della circoncisione. A partire da quel momento si ha diritto ad avere un gregge e a formare una famiglia. A partire da quel momento, nella casa materna, le altre donne – sorelle, figlie – si faranno in disparte al momento dei pasti, e solo la madre o la moglie potrà mangiare accanto al moràn. Saranno poi loro a decidere del matrimonio delle figlie, saranno loro ad autorizzare i movimenti e le decisioni delle mogli. In occasione di un matrimonio o di una cerimonia di circoncisione, la donna potrà assistere solo dopo aver ottenuto il permesso del marito. E spesso e volentieri, il marito dice no.
La questione femminile
Tutto questo accade nel dicembre 2015, in un altipiano reso verde dalla stagione delle piogge nella regione di Loitokitok. E’ il giorno di Natale e, come in molti altri luoghi del mondo, la famiglia di Leah si riunisce attorno al pasto. I ragazzi guardano video sugli smartphone e chattano con amici e amiche su Whatsapp. Le ragazze chiedono all’ospite bianco una foto con il bebé e lasciano il nome di un account Facebook per potersi rivedere. Tutti insieme, ragazzi e ragazze e forse anche il tipo bianco, sono parte di un momento storico fondamentale per capire cosa significa davvero “maasai”.
Sabore, uno dei fratelli di Leah, ha le idee chiare in proposito. “Il mondo occidentale ha fallito, e si è trascinato le altre società nella sua folle corsa verso il nulla.
L’Africa non ha esitato neppure un momento ad abbandonare i vestiti che ha sempre portato addosso per indossare quelli proposti dai bianchi. Ma non ha considerato il rischio di ritrovarsi un giorno nuda ed esposta al freddo.
Perché ora è chiaro che i vestiti promessi non bastano per tutti, e nel frattempo quelli di sempre sono andati e distrutti”.
Tra i quaranta e più figli del padre di Leah, solo tre o quattro hanno formato un loro gregge, che spesso è gestito da altri pastori stipendiati. Alcuni hanno perso contatto con la casa paterna. Altri tornano due volte all’anno, per le vacanze, ma i loro figli, che non parlano il maasai, non sono in grado di comunicare con il nonno e la nonna, e nemmeno con i loro fratelli e cugini coetanei, che ogni giorno dopo la scuola portano al pascolo le mucche e i vitelli, e che guardano con curiosità gli smartphone già presenti nelle loro tasche.
Secondo Leah, sono proprio alcune di quelle regole ad aver segnato, negli ultimi decenni, il progressivo indebolimento dell’idiosincrasia maasai. “Il fulcro della questione riguarda la condizione femminile: la mutilazione genitale delle donne costituisce solo il lato divenuto internazionalmente visibile del problema”.
In seguito alle pressioni della comunità internazionale, fatte proprie dai governi del Kenya negli ultimi vent’anni, la pratica dell’infibulazione è stata progressivamente messa in discussione, ma solo nella famiglia di Leah la sua generazione è la prima a crescere relativamente libera di decidere in prima persona della propria vita sessuale. Una precisa linea retta continua a demarcare i molteplici significati dell’essere donna nel mondo maasai che si affaccia al 2016. Attraverso le scelte delle ragazze si giocherà il futuro della cultura maasai.
Pastori e designer
I guerrieri moràn sanno che non possono combattere contro la potenza superiore della città e della vita contemporanea. Anche per questo molti di loro propongono, di fatto, uno schema “a cavallo” tra i due sistemi culturali. Sabore per esempio vive e lavora a Nairobi, dove ricopre l’incarico di editor presso uno dei principali gruppi mediatici kenioti. Ciò nonostante, almeno una volta al mese raggiunge la famiglia sull’altipiano, anche per controllare lo stato di salute delle sue greggi. Fedele a uno stile di vita che ha imparato da ragazzino, Sabore ha scelto di investire i suoi risparmi in mucche e pecore e oggi il suo gregge conta più di quattrocento animali.
I suoi animali pascolano nella regione di Lenksim. Al contrario di Loitokitok, che è stata progressivamente colpita dalla progressiva riconversione dei pascoli in aree coltivate, a Lenksim la savana costituisce ancora l’ecosistema di riferimento. La località è raggiungibile solo attraverso un camion che una volta a settimana muove la cittadina di Kimana per il mercato degli animali del martedì. Insieme a pecore e capre, nel cassone di un vecchio Volvo, osserviamo zebre e antilopi e giraffe allontanarsi nella polvere del tramonto di altro un giorno che finisce.
Leah visita i suoi parenti che vivono in questa regione. Le case sono costruite con rami, adobe [terra secca] e sterco di vacca e vengono abbandonate ad ogni transumanza.
All’interno sono particolarmente fresche, mentre l’organizzazione dello spazio segue una logica complessa, che le converte in veri e propri labirinti. Le donne che ci accolgono spiegano le trame dei loro meravigliosi adorni. Anche in questo caso, costituiscono un vero e proprio linguaggio, attraverso il quale è possibile definire l’età di una donna, la sua condizione familiare, l’appartenenza a un determinato clan.
Nell’aria fresca della notte, le donne cantano e ridono senza interruzione. Quando capisco che sono felici di essere fotografate e filmate, sistemo la mia torcia frontale su un albero pieno di formiche e il loro spazio casalingo si converte in una sorta di teatro. Sotto i riflettori improvvisati, mettono in scena le diverse cerimonie che accompagnano i rituali della circoncisione e della nascita di un bambino. Per rendere il tutto fedele alla realtà, raccolgono e dispongono sul suolo le diverse erbe che vengono utilizzate durante questi eventi.
Raccontano a Leah che sono felici di poter mettere in scena tutto questo, perché da qualche anno gli insegnanti delle scuole elementari impediscono loro di insegnare ai loro figli quei canti e quelle danze. “Sono considerati retaggi primitivi da abbandonare”, spiega Leah, “molto meglio imparare l’inglese”. Traducendo in lingua maa le mie parole, Leah spiega loro che in Italia quarant’anni prima si è verificato lo stesso processo. Il sistema scolastico si è accanito contro le lingue locali i dialetti, e così un intero patrimonio di conoscenza è andato perduto. Le donne ascoltano interessate e commentano tra loro.
Il buio della notte ci avvolge così, ognuno con gli strumenti rappresentativi della sua cultura: loro con le erbe e i canti, io con la macchina fotografica. Leah in mezzo noi, alla ricerca di un suo equilibrio.
L’immagine in apertura è una foto di Feans tratta da Flickr in CC