Inviate i vostri contributi su Gerusalemme a gerusalemme@qcodemag.it
di Giulia Bondi
Le scalette all’ingresso della Città Vecchia. “Da questa parte, no scusate, da quest’altra” dice Antonio e infine le trova, quelle giuste. Pochi gradini e siamo all’altezza dei tetti. Nel buio.
Dietro una finestra, appare una stanza microscopica, illuminata. Uno studiolo e un volto circondato da due boccoli. Anzi no, nessun volto, solo una testa di capelli, non ricordo più bene. Di certo, probabilmente, forse, era coperta da una kippah scura. Una testa chinata sulle carte fino a tarda ora. Lettere misteriose, segni, scritture.
Una notte di luna sui tetti, in giro tra corridoi e ballatoi, con il fiato sospeso dall’emozione e dalla sensazione di essere intrusi, dentro una casa così bella da non poter non essere anche per noi.
E come si può dire, dieci anni dopo, quanto di questa indimenticabile visione sia realtà, un vero ricordo, e quanto invece idea, sogno, storia di Gerusalemme, sentita e ripetuta migliaia di volte, tanto da vedere quello che non c’è ma che ormai ci aspettiamo…?
Era vera la donna, forse russa o slava, chinata sulle pietre del Santo Sepolcro con una siringa di acqua, alla quale faceva toccare la pietra prima di berla, succhiarla goccia a goccia come una poppante estatica?
Era vera o immaginata la donna accanto a lei, che su quelle stesse pietre strofinava vestiti e stoffe? Le estraeva da una gigantesca borsa, prima di rimetterle via in un’altra borsa gemella, ed erano forse destinate a un mercato dell’est, anzi del nord, mercato di cose sante e benedette, coperte di polvere di santità?
Era vera la corona di spine fluorescente, di quelle che se le esponi un po’ alla luce dopo emettono loro stesse una luce fioca, quando spegni la lampadina della stanza o entri in uno sgabuzzino per vedere se funziona davvero, come analoghi rosari di analogo materiale in un ricordo di bambina? Era davvero in vendita, paradosso dei souvenir, quella corona di spine, in quel negozietto in alto, sulla destra?
Ed era davvero quella la Via Crucis, la strada del martirio? Strada che non percorre un monte ripido ma deserto, tra le ali di folla, come nell’iconografia immaginata e introiettata, ma invece attraversa i vicoli e le vie del commercio, e la folla ti vede per forza, e alla folla è imposta per forza, a loro e a te, la tua umiliazione?
Era vera, sì era vera, Martina, che non avevo più visto da anni, seduta in un bar fresco e bello, nel patio di un locale confortevole e frequentato da tanti occidentali, di cui non ricordo il nome, ma era certamente a Gerusalemme est.
Era vera, me lo confessò poi lui stesso perché io nulla avevo sospettato, vera anche se quel giorno certo infondata la paura di Andrea, che sull’autobus pubblico guardava tutti per bene, non negli occhi ma sotto gli abiti, sotto le camicie e le giacche, anche lui travolto dalla paranoia delle immagini immaginarie, venute dalla tv, dai racconti, dall’abitudine.
Erano vere le soubrette che accompagnavano quel viaggio pellegrinaggio dove ero finita quasi per caso, passando dal deserto del Sahara, un po’ viaggio sportivo ma organizzato dall’Opera Romana, con tanto di cardinali. Era vera la sensazione che davano le soubrette con quella prossemica, quella familiarità, quei “dimmi mons” pronunciati sbattendo le ciglia? Che mons stia per monsignore, questo certo non l’ho immaginato.
Era vero quel frate sul pullman, che ripeteva “non finirà mai, tra arabi ed ebrei, perché loro non hanno il perdono cristiano”?
Era vera quella centuriazione millimetrica degli spazi sulla collina, tra confessioni e confraternite per prendersi cura dei luoghi di cui c’è scritto sui libri sacri?
Gerusalemme sposa, Gerusalemme metafora, Gerusalemme sognata, con la mente e con i piedi.
“Se ti dimentico Gerusalemme…” e “Come sono belli sui monti…”
Era vero il tramonto scintillante d’oro, rosso e rosa sulla cupola della grande moschea.
Veri i sorrisi dei ragazzi e degli atleti, che partecipavano a una corsa, tra Gerusalemme e Betlemme, con il checkpoint aperto, sì ma non per tutti. Erano veri i piedi nelle scarpette, vere le gambe pallide nei calzoncini, a solcare le strade sotto il sole tiepido di fine aprile. Era vero che gli atleti israeliani al checkpoint erano tornati indietro, ed era vero che i due pallavolisti, presentati il giorno prima ai giornalisti italiani come palestinesi, erano invece veri cittadini arabi israeliani, della vera Gerusalemme Est.
Era vera e strappava il cuore la storia dei Parents Circle, un dottore e una casalinga, o almeno credo. Entrambi con un morto in casa, e quasi ogni sera fuori casa insieme, a parlare di pace e di riconciliazione.
Erano vere le armi addosso ai ragazzini e alle ragazzine in divisa, armi al muro del pianto, armi al negozio di hot dog, armi a prendere il gelato, armi gigantesche per sentirsi sicuri.
Era vera la devozione delle donne arabe a chiedere la grazia di un figlio alla chiesa della natività, ed era quella la volta che me ne parlarono, tra il fumo e le luci fioche delle candele?
Era vera la basilica gigante che si era digerita come un intestino mostruoso la modesta casetta dell’annunciazione?
Era vero il cartello “no bikini e no armi” all’ingresso dei luoghi santi, e santi voleva dire, fede a parte, un parcheggio, una basilica anni Settanta e un gran negozio di souvenir, più il suddetto cartello?
Era vero e bruciava il sale del mar Morto. Erano veri i controlli dell’aeroporto.
Ma sto già uscendo dal tuo territorio, ti sto già lasciando, Gerusalemme.
Sei di nuovo sogno, Gerusalemme, e almeno in sogno da te torneremo tutti.