di Giovanni Borrello
Non fu solo uno dei più grandi disastri della storia della marineria, ma un vero e proprio evento spartiacque: da quel momento l’uomo comprese che sentirsi invincibili non significava esserlo davvero. Gli anniversari sembrano fatti apposta per essere evitati: un rituale il più delle volte convenzionale, in cui sovrabbonda la noia e al cordoglio subentra il fastidio, corredato da un irritante pietismo. Eppure in certi casi alcune date passano alla storia non perché le istituzioni e i media ne trasmettono l’importanza, avvolta spesso nella melassa del politically correct, ma perché effettivamente da quel momento in poi qualcosa è cambiato. E l’affondamento del Titanic, il famoso transatlantico della White Star Line colato a picco con i suoi 1.500 passeggeri, è un episodio che ha aperto a nuovi scenari. Perché in quella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 ad inabissarsi nelle gelide acque a largo di Terranova non fu solo l’oggetto galleggiante più grande mai realizzato dall’uomo. Fu un sistema di valori.
INAFFONDABILE
Il Titanic era il simbolo della supremazia dell’uomo sulla natura, sugli eventi: una prova evidente e visibilissima della potenza della razionalità umana figlia del positivismo e della volontà di un popolo. Perché il Titanic e le sue due navi gemelle Olympic e Gigantic erano state progettate per far comprendere al mondo chi governava sui traffici via mare: l’Impero Britannico, quell’Impero che si contendeva con altre nazioni europee il dominio sui sette mari e i territori afro-asiatici. Ideato alla fine dell’era Vittoriana – quando l’incorruttibilità dell’immagine imperiale britannica non era più così al sicuro da critiche anche interne (vada ad esempio l’ansia che pervade “Cuore di tenebra” di Conrad) – doveva essere la prova visibile al mondo di come anche il nuovo secolo avrebbe dovuto fare i conti con il volere di Sua Maestà. Il progresso – un progresso talmente “colossale” da incutere rispetto e timore – era la miglior pubblicità: così come negli Stati Uniti si andavano erigendo grattacieli avveniristici, in Gran Bretagna – forti della presenza di carbone e giacimenti minerari – si intraprese una politica a favore di progetti decisamente titanici. Da imporre sui mari.
Un sogno al passo coi tempi: in pochi anni automobili, aeroplani (ancora incerti nel volo… ma funzionanti), cinematografi, grammofoni, corrente elettrica nelle città.
Il Novecento sarebbe stato il secolo del dinamismo, come avevano compreso assai bene i futuristi italiani che, stanchi del polveroso classicismo delle accademie, volevano uccidere il chiaro di luna per dare spazio alle luminescenti attrattive della quotidianità. Eppure l’Ottocento non se ne andava: convenzioni sociali e mode erano ancora legate al secolo passato. Le dinamiche del progresso – studiate da Marx, indagate da Weber e analizzate da Freud nelle implicazioni che investivano la società così come l’individuo – risentivano ancora, nel loro svilupparsi, del pensare comune di un’epoca che mentre ancora si comportava “decentemente”, dominata dalla nevrotica convinzione che le buone maniere avevano diritto di precedenza su tutto, non si era accorta che quel progresso di cui andava moralmente fiero aveva già incominciato a mietere le sue vittime. Divari sociali incolmabili tra working class e vecchia classe latifondista, rivendicazioni di gruppi emarginati dalla società ufficiale (come le donne), nuovi modi di combattere sul campo di battaglia (nella guerra anglo-boera vennero impiegate nuove e micidiali armi) e perfino di fare una guerra (la guerra ispano-americana fu in sostanza una trovata di marketing più che un conflitto di ragion di stato): queste erano le novità che si andavano profilando all’orizzonte. Ma pochi se ne accorsero.
L’impegno morale dell’uomo verso se stesso e i suoi simili stava alla base di qualsiasi iniziativa: medicina, scienze, tecnica, diritto.
Tutti i saperi dovevano vertere al miglioramento della qualità della vita dell’essere umano. Anche se per molti le teorie di Charles Darwin erano ancora un amaro boccone da inghiottire, l’idea di una costante evoluzione verso un’età dell’oro ormai prossima permeava le speranze degli “uomini di buona volontà”. Per molti la dura verità si palesò solo quando l’inaffondabile Titanic si scontrò con un iceberg, aprendosi come una scatola di sardine, rivelandosi per quello che era: un involucro di metallo reso vivibile con rinomati arredi e favolose sciccherie. “E’ fatta di ferro signore, le assicuro che può affondare. E affonderà. È una certezza matematica”: così nel celebre kolossal di James Cameron del 1997 il progettista Thomas Andrews si rivolge all’amministratore delegato di White Star Line Bruce Ismay una volta constatato il danno.
UN SECOLO MUORE, UNO SORGE
Il resto è storia, soprattutto storia del cinema: in tutte le pellicole la figura del capitano Edward J. Smith affonda con la nave in un’aura di cavalleria decisamente ancora ottocentesca, il complessino di archi suona per contrastare il panico fino a quando la poppa non si solleva dall’acqua, il progettista rimane catatonico a fissare il quadro “In avvicinamento al porto di Plymouth” del pittore Norman Wilkinson nel fumoir della prima classe, la ricca signora Molly Brown viene zittita dal marinaio della scialuppa quando vuole tornare sul luogo del disastro per recuperare i naufraghi, il codardo signor Ismay che si fionda sulla lancia di salvataggio in barba alla convenzione “prima le donne e i bambini”.
Il Novecento, il secolo breve, nasce quella notte. E i giornali senza saperlo, nel descrivere dettagliatamente la tragedia e le varie fasi processuali che contraddistinsero i mesi e gli anni successivi, stavano anticipando ai lettori quanto sarebbe accaduto di lì a poco. E cioè che quasi improvvisamente il progresso, la tecnica, non erano più così “perfette”.
Nel progresso e nella tecnica si nascondeva un lato inquietante, un lato oscuro, oscuro come l’animo umano. Le negligenze del capitano Smith, la condotta di alcuni stewards che condannarono a morte decine di passeggeri di terza classe non consentendogli di raggiungere le scialuppe, la folle scelta della compagnia che non aveva investito sulle lance di salvataggio (adeguandosi alla normativa esistente che però si basava sulla capacità di navi molto più piccole, non certo di paesi galleggianti da 2.200 persone), tutto questo era il segno che la tecnica senza una morale non valeva molto.
E tutto il mondo se ne accorse pochi mesi dopo, quando l’attentato di Sarajevo fece precipitare le “civili” nazioni dell’Occidente in una guerra mostruosa che grazie alla tecnica fu responsabile di milioni di morti e feriti. La Belle époque con la sua spensieratezza aveva incominciato ad affondare in quella notte di aprile del 1912, ma fu solo con il massacro di Verdun, i gas tossici, i primi campi di concentramento, le pulizie etniche “scientifiche” in Armenia, i bombardamenti massicci ed indiscriminati sulla popolazione delle città nemiche con aeroplani o dirigibili e l’affondamento di navi con U-boote che il sogno si inabissò definitivamente.
LA METAFORA DEL NAUFRAGIO
Ma il Titanic fu una tragedia avvenuta in tempo di pace. Ancora gli orrori della “guerra modernissima” non si immaginavano. E questo forse è il segreto della sua forza immaginifica: perché del Lusitania – una nave del tutto simile al Titanic – affondata da siluri tedeschi nel 1915 si ricordano in pochi. In guerra ogni barbarie è lecita. Un po’ meno quando la gente muore in scalinate intarsiate o in cabine artisticamente decorate. Soprattutto poi se è ricca e famosa (alcuni degli uomini più ricchi del mondo come J. J. Astor e Mr Guggenheim perirono; il miliardario J. P. Morgan non si imbarcò all’ultimo momento).
È inquietante pensare che lo scrittore Morgan Robertson nel suo romanzo del 1898 Il naufragio del Titan avesse immaginato già tutto. Ma in questi casi le coincidenze non solo saltano agli occhi, addirittura si trasformano in presagio.
Del resto le leggende sulla sfortunata nave fioccarono per anni: come quella che voleva imbarcata nella stiva una mummia “maledetta”, responsabile della tragica fine del transatlantico. Non è un mistero del resto che il Titanic sia sempre stato un business: libri e film hanno periodicamente riacceso l’attenzione – in verità mai del tutto sopita – sulla triste fine della nave dei sogni. La stagione d’oro di Hollywood di fine Novecento giovò del film di Cameron – casualmente uscito nelle sale cento anni dopo la nascita del cinema – come prodotto di una nuova golden age: campione di incassi al botteghino e record di statuette agli Oscar. Nel 2012, a cento anni dalla tragedia, con la riuscita del film in versione 3D, un altro successo planetario. E forse un po’ la responsabilità di questo grande nuovo successo fu anche di noi italiani: l’incidente della Costa Concordia all’isola del Giglio a inizio anno ridestò la fantasia dei giornalisti che urlarono ad un Titanic italiano.
E così come il Titanic per l’Inghilterra del 1912 fu sinonimo di crollo dei valori, anche la Concordia per l’Italia del 2012 fu sinonimo di caduta degli dei, in una difficile situazione economico-sociale conseguente alla crisi post 2008: l’allegria della gente spensierata che faceva festa, che affollava i ristoranti e si rilassava nelle vasche idromassaggio venne bruscamente interrotta da una manovra azzardata. Metafora di ben altre manovre azzardate nei bilanci e nelle scelte strategiche di un Paese sull’orlo del fallimento.
Ogni epoca ha il suo Titanic insomma.
Trovate mediatiche a parte però, ciò che va sottolineato della tragedia del Titanic è che fu la prima volta in cui centinaia di persone assistettero alla morte in diretta di migliaia di persone – anche parenti e amici – senza poter fare nulla, letteralmente a poche remate da loro, a causa di un problema di “valutazione tecnica”. Non a caso Ernst Junger scrisse nel suo Trattato del ribelle: “Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris [arroganza ndr] del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale”.
Quella che per il mondo contemporaneo è la normalità – la morte condivisa in streaming con le telecamere e il rischio calcolabile di disastro per aerei, impianti industriali ecc. – non era altrettanto scontata 104 anni fa. Erano già tutti spettatori e non lo sapevano (Hans Blunemberg aveva saggiamente intitolato un suo saggio infatti Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza). Quella notte del 1912, con la morte di centinaia di persone, nacque la società complessa che conosciamo e in cui quotidianamente ci destreggiamo, tra rischi e pericoli di cui troppo spesso vediamo solo la punta dell’iceberg.