Mistress America

La nuova pellicola di Noah Baumbach è uno di quei piccoli gioielli “indie” che fanno tornare la gioia di essere spettatori anche ai cinici più incalliti

di Irene Merli

MISTRESS AMERICA, di Noah Baumbach, con Greta Gerwig e Lola Kirke. Nelle sale.

Come i film precedenti – “Frances Ha” (2012) e “Giovani si diventa” (2014), ” Mistress America ” nasce da un lavoro di scrittura a quattro mani fra il regista e la sua compagna e musa, protagonista della pellicola insieme alla giovane Lola Kirke. Stiamo parlando della luminosa Greta Gerwig, che aveva già conquistato il cuore di molti spettatori appunto in “Frances Ha”, con un personaggio lieve, una giovane Holden alla ricerca del suo posto nella New York post crisi economica . Ora la Gerwig torna con un ruolo iconico, che riesce a raccontare come nessuno prima l’attuale generazione dei trentenni, dall’identità lavorativa  “liquida”  alla continua rappresentazione di sé sui social – “smettila di parlare di Twitter! È imbarazzante”, dirà la giovane Kirke durante la lite che segna l’apice del dramma –, condendo il tutto con un allegro atteggiamento hipster  mai infastidente.

Del resto, la bionda attrice interpreta in “Mistress America” quell’età in cui, come dice lei stessa, “il desiderio è superiore ma le possibilità sono inferiori”.

Ed è proprio in questa delicata fase della vita che si trova a confrontarsi con la generazione dei ventenni, attraverso l’incontro con la quasi sorellastra Tracy, una matricola della Barnard University appena arrivata a New York. Delusa e amareggiata  dalle sue prime esperienze al college, rifiutata dal circolo letterario in cui ambisce entrare, ridotta a mangiare pizza fredda mentre risuona No more lonely night di Paul McCartney, la piccola Tracy viene convinta dalla madre a chiamare la figlia dell’uomo che sta per sposare. E di colpo tutto cambia. Tracy viene catapultata la sera stessa nella vita dinamica e supercool di Brooke, fra concerti indie in cui l’affascinante trentenne sale sul palco solo per ballare, come la prima Madonna a New York, manda tweet galeotti e coltiva il progetto di aprire un ristorante  insieme al fidanzato greco.

Ma come spesso accade nei film di Baumbach non è tutto oro quello che luccica.

Così Brooke ci appare presto il classico tipo in grado di innamorarsi di tutto senza portare a termine mezzo progetto, alla ricerca di una qualsiasi realizzazione che però non comporti la perdita di un universale ventaglio di possibilità. Anche Tracy desidera farcela – come il mellifluo Jamie di “Giovani si diventa”- e il suo è un personaggio genuinamente “rapace” della vita altrui al fine della scrittura  (con annesse esplosioni emotive che finiscono però per investirla in prima persona). Tra un’avventura e l’altra la fanciulla non resta con le mani in mano e prende appunti sulle vicende spumeggianti e… inconcludenti di Brooke, che finiscono per diventare la materia prima del nuovo racconto che sta scrivendo.

Intorno a loro gira una fauna di personaggi divertentissimi, un coro che completa la rappresentazione delle due generazioni, con altre nevrosi e tic, nel quale spiccano la nemica  giurata di Brooke: Mamie-Claire, l’archetipo dell’amica stronza che ruba idee e fidanzato, e il compagno d’università nerd che Tracy cerca vanamente di sedurre.

Quando il dramma tra Brooke e Tracy sarà esploso e volato via fra i grattacieli di New York, ci accorgeremo che avrà portato con sé tutte le velleità, lasciando le due ragazze sole in città il giorno del ringraziamento.

Brooke sta lasciando New York per la California, Tracy si sta facendo strada sulla scena letteraria di New York: tutte e due, insomma, sono ancora alla ricerca di un posto tutto per se’. Ma per un’ultima volta passeranno la giornata insieme, tra lo scoppiettare delle idee fugaci e strampalate della “grande” e la seria affettività della “piccola”.

“Mistress America” è un film vitale, intelligente, con una scrittura brillante, acuta e una splendida recitazione dell’attrice principale, attorno alla quale è cucita la pellicola, e dei suoi compagni di viaggio. Uno di quei piccoli gioielli “indie” che fanno tornare la gioia di essere spettatori anche ai cinici più incalliti.