Quante volte capita di trovarsi di fronte a un muro o a una siepe e di intravedere al di là di questi un “bello” che stuzzica la curiosità? Palazzi anonimi che ospitano associazioni che rendono migliore la città? Edifici abbandonati che nascondono storie che neanche un giallista riuscirebbe a immaginare? Di questo e molto altro ancora vuole parlare “What’s inside”. Perché Milano pullula di “fenicotteri”, proprio come quelli nascosti tra le foglie del giardino di Villa Invernizzi, dietro porta Venezia.
di Laura Giuntoli – I cani da reporter
Quando un bambino entra nell’area giochi del reparto di Infettivologia pediatrica dell’Ospedale Sacco di Milano c’è sempre una visita o un prelievo da fare, ma ci sono anche pennarelli e fogli bianchi da riempire, la cucina in miniatura, libri, pupazzi e tutte le attività che Patrizia e Rossana, le due educatrici del comune di Milano, si inventano ogni giorno assieme ai volontari del reparto. Questo è l’approccio fatto di medicina e umanità dello staff della dottoressa Vania Giacomet, che si prende cura di minori affetti da HIV e che, grazie ad una fitta rete di sostegno, non li lascia mai soli, neanche fuori dalla struttura ospedaliera.
Saranno i bimbi che giocano con il pongo, i ragazzi che fabbricano collanine o si sfidano a biliardino, saranno le pareti tappezzate dai disegni colorati di Silvia, Andrea, Sarah, Matilde, Giovanni con tanti “GRAZIE” per le educatrici del Comune di Milano, Patrizia e Rossana, e per gli altri membri dello staff che ogni giorno si prendono cura di loro.
Sarà per questo che non sembra di stare in un Ospedale, nel reparto di Infettivologia pediatrica del Sacco di Milano, uno dei più importanti in Italia per tipologia di assistenza offerta e attività di ricerca.
Il team di medici, infermieri, ricercatori, educatori e volontari è guidato dalla dottoressa Vania Giacomet e ogni giorno assiste circa 100 bambini e adolescenti affetti da HIV, la maggior parte dei quali a trasmissione verticale. “Sono bambini che hanno contratto l’infezione da madre sieropositiva, e che quindi convivono dalla nascita con il virus e con la terapia antiretrovirale”, racconta Giacomet. Sono minori con una storia pesante alle spalle, una storia che però – assicura – ha un futuro, nonostante il paese faccia davvero troppo poco per loro.
Questo approccio fatto di scienza e umanità è la cura che la dottoressa Giacomet e il suo team hanno scelto, e funziona.
Però non basta: il passo successivo è la lotta all’emarginazione delle persone sieropositive, che deve avere un respiro più ampio e uscire dalle mura degli ospedali e delle associazioni per coinvolgere tutta la società civile. “Il virus si trasmette per via sessuale ed ematica, non attraverso i baci, gli abbracci o il contatto. E in questi 25 anni a stretto contatto con i miei ragazzi mi sono resa conto che hanno gli stessi desideri dei loro coetanei. Lo scopo del mio lavoro è preservare e difendere le aspirazioni di ognuno di questi bambini, perché i loro sogni sono il loro futuro e avere un futuro è un loro diritto. Sognano una famiglia come e più di ogni altro, perché molti l’hanno perduta quando mamma e papà sono morti di Aids”.
“La medicina gli ha permesso di non ammalarsi, adesso sta alla comunità garantire loro una vita normale. E ricordare sempre che i miei ragazzi non trasmettono l’Hiv, ma trasmettono sogni”.
All’ospedale Sacco i bambini possono accedere alle più elevate cure mediche attualmente disponibili nel mondo anche grazie a un’attività di ricerca all’avanguardia nel panorama internazionale. “Il nostro reparto, che il Prof. Gian Vincenzo Zuccotti ha contribuito a formare incentivando le iniziative che da anni caratterizzano il servizio offerto, cerca di accogliere questi ragazzi a tutto tondo – dice Laura Pogliani, direttore del reparto di Pediatria e dell’Unità di neonatologia – dal momento del parto fino all’ingresso nell’età adulta. Oggi il rischio di trasmissione della malattia dalla madre è molto basso, ma i bambini che sfortunatamente contraggono il virus qui sono assistiti fin dai primi momenti di vita”.
Il laboratorio del reparto è attivo al mattino con i prelievi e la consegna delle terapie domiciliari, ma Paola Poletto, infermiera professionale pediatrica da 27 anni, è disponibile 24 ore su 24 per i suoi ragazzi. “Hanno il mio numero di cellulare e possono chiamarmi quando vogliono”, dice Paola. “Li ho visti nascere e ho visto nascere i loro figli. Per loro sono una di famiglia e i ragazzi sono una famiglia per me. Non ho mai avuto paura di prelevare un paziente sieropositivo, perché è veramente impossibile prendere l’hiv in questo modo. Ormai la terapia funziona talmente bene che da un prelievo al mese siamo passati ad uno ogni tre o quattro mesi, anche nei casi più gravi”.
La terapia antiretrovirale oggi è in grado di neutralizzare il 96 per cento della carica virale dell’Hiv e, associata all’uso del preservativo, permette alle persone sieropositive di avere un futuro, una famiglia e dei figli sani.
Non è sempre stato così: “Ho cominciato a dedicarmi a questi pazienti da studente, nel 1989 – ricorda la dottoressa Vania Giacomet – è stato un periodo molto triste perché non c’era una cura e molti dei miei bambini non sono mai diventati grandi, li ho persi nei primi anni di vita. Poi la svolta, nel ’97: la ricerca ha messo a punto il cocktail farmacologico che ha arrestato il virus, anche se gli effetti collaterali dovuti alle medicine erano ancora pesanti. Ad oggi la situazione è migliorata e le terapie di ultima generazione sono sempre meno invasive: il paziente può vivere per tanti anni, anche se deve assumere i farmaci ogni giorno mantenendo una buona aderenza alla terapia”. L’Hiv per adesso non si può eliminare, rimane nell’organismo, ma si può convivere con l’infezione: “I miei ragazzi vanno a scuola, in piscina, alcuni studiano all’università altri lavorano. Insomma, vivono”.
Spesso purtroppo il virus non è che la punta dell’iceberg di problemi più profondi, perché molti minori affetti da Hiv sono figli di ex tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, alcolisti, e oltre alla malattia si portano dietro i danni causati dalla mancanza di figure genitoriali adeguate. Secondo Simona Trotta, psicoterapeuta responsabile del percorso di comunicazione di diagnosi di infezione da HIV, il momento più difficile è quando viene svelata loro la diagnosi: “Lavoro in equipe con medici, educatori, assistenti sociali e volontari con circa cinquanta bambini e adolescenti di età compresa tra dai 6 ai 29 anni; spesso i loro genitori sono morti di AIDS e i minori vivono coi nonni o in comunità, alcuni sono figli adottivi.
Il supporto psicologico dopo la comunicazione di diagnosi è importantissimo, fondamentale è anche la figura dell’educatore che sostiene e accompagna il minore nell’inserimento sociale.
La nostra è una rete che coinvolge le loro famiglie o i tutori prima, durante e soprattutto dopo la comunicazione della diagnosi, collaborando con gli specialisti delle UONPIA (Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza), delle comunità e delle case famiglia in cui spesso vivono i bambini seguiti dal nostro reparto. Quando ritengo che il bambino sia pronto a sentirsi dare delle risposte in merito alla sua patologia, e i genitori sono pronti psicologicamente a svelare “il segreto”, si stabilisce una data. A quel punto il medico infettivologo del reparto comunica la diagnosi, poi il bambino passa nel mio ambulatorio, che io chiamo la stanza delle emozioni, dove io accolgo le sue reazioni: negazione o anestesia, poi depressione o chiusura, di rabbia o di ipocondria. Il mio compito è far sì che queste emozioni vengano elaborate e trasformate in energia per recuperare le risorse e arrivare all’accettazione della malattia. I genitori spesso hanno trasmesso la malattia ai figli e lavorano con me sui loro sensi di colpa, e sul trovare la forza per aiutare i ragazzi ad elaborare “la verità”.
Nel caso di pazienti extracomunitari è fondamentale la figura del mediatore culturale per comprendere non solo le loro parole, ma la loro visione. Ricordo il padre di una bimba eritrea di sei anni che, dovendo lasciare il paese per tornare in patria, mi mise in braccio la figlia dicendomi che me la “donava”. In Eritrea i padri donano i figli a persone di fiducia quando non possono prendersi cura di loro. E lui aveva fiducia in me”.