di Nadia Que Ver
Una mattina iniziata bene. Nonostante la perenne presenza di giovani armati di M16 appostati ad ogni angolo, nonostante il sentimento di inadeguatezza e di impotenza che si prova camminando per Gerusalemme. C’è un sole primaverile, caldo. Uomini, donne e bambini colorano la città più del normale, danno una certa sensazione di pace.
Siamo continuamente esposti a sentimenti contrastanti causati dalle contraddizioni e dai dubbi che quest’ultime provocano, e noi qui, ne siamo testimoni diretti.
Oggi finalmente incontro Hayat, una donna palestinese, madre di quattro figlie, che lavora per Emleson Society: “Tutto ha avuto inizio nel 1992, in un’umile stanza, dove un gruppo di coraggiose donne di Gerusalemme ha deciso di lavorare sullo sviluppo di attività a matrice femminista nella città santa ed essere così di sostegno alla loro comunità. Dopo un percorso lungo e faticoso, dopo aver superato difficoltà e ostacoli, quest’associazione è diventata una stella scintillante nel firmamento di Gerusalemme; è alla costante ricerca di sviluppo e innovazione, attraverso un’attitudine vitale e accogliente. Ha fermamente consolidato le sue radici a Gerusalemme liberando la sua mente illuminata e produttiva verso tutto ciò che è positivo, scientifico e creativo. Adesso al suo secondo decennio, si sta trasformando in un albero carico di rami che offre i suoi frutti a famiglie svantaggiate e bambini che hanno bisogno di un luogo caldo, un boccone saporito, assetati di conoscenza e affetto”.
É evidente come qui la presenza di uno straniero dia sicurezza. Da una parte siamo il peggio che potesse loro capitare, dato il “business umanitario” che gira intorno alla questione palestinese. Dall’altra parte quando trovano di fronte a loro persone motivate, con un puro spirito di collaborazione e con il desiderio di condividere e di portare a termine azioni concrete, allora vedi la fiducia che ripongono in te.
Sono entrata nell’associazione Emleson e l’accoglienza è stata tutta al femminile, sorrisi e benvenuti. Mi offrono una delle loro fantastiche colazioni: una tavola apparecchiata con pietanze fatte in casa, dove si condividono pensieri umani e quotidiani di donna.
Traspariva la nostra gioia nel conoscersi. Traspariva anche la loro aspettativa nei miei confronti, come se la mia presenza lì potesse dare una svolta. Appena mi sono seduta mi hanno offerto un caffè e mi hanno raccontato cosa fosse successo la notte prima a Qalandia: un giovane palestinese di 22 anni, studente di giornalismo, è stato ucciso dalle forze israeliane, e altri 15 ragazzi sono rimasti feriti. I racconti sono pieni di tristezza, sono madri, sono persone che vivono nella paura. Di chi è la responsabilità di tutto questo?
Possiamo accanirci sullo Stato d’Israele, ancora non riconosciuto da 32 paesi dell’ONU, essendo uno stato illegittimo, possiamo colpevolizzare l’autorità palestinese, incapace di supportare il suo stesso popolo che ha perso completamente fiducia nel suo governo, essendo un’altra arma amministrativa dell’occupazione, partner di Israele, come ci dice Elkin, ministro per l’integrazione dei migranti della Knesset.
Possiamo anche chiederci se non sia lo stesso popolo palestinese ad autorizzare e fomentare tale conflitto a causa della sua poca, se non nulla, unità interna. O siamo noi, comunità internazionale, a dare adito a queste ingiustizie e soprusi attraverso i soldi donati dall’Unione Europea alla ANP e alle tante ONG che operano da queste parti, fondi che vanno poi a rinforzare l’economia dello stato occupante? Tutte domande a cui si può dare una risposta solo facendo esperienza di quella che è la quotidianità qui, parlando, confrontandosi e cercando la verità di ognuno.
Esco per tornare verso il centro. Aspetto il taxi collettivo sulla strada. Ne passano 3 ma sono tutti pieni. Aspetto sotto il sole caldo del primo di marzo. A un certo punto una macchina con una signora al volante e un signore di fianco si fermano e mi chiedono dove sono diretta. Mi fanno accomodare in macchina e ci dirigiamo verso il centro. Io ero del tutto stupita da quello che mi stava succedendo.
Non si sono chiesti chi fossi o perché fossi li ma si sono preoccupati per me. Mi hanno raccontato di come tutto sta peggiorando qui. Lui ha un figlio di 14 anni che va a scuola nel centro di Gerusalemme, ma non può più lasciarlo muovere libero nella città. Ha paura che gli succeda qualcosa, dato che la sua età rappresenta quella nel mirino delle forze israeliane. I giovani qui sono considerati un pericolo. Qui, quelli che vengono uccisi, perquisiti e umiliati giornalmente sono solitamente ragazzi dagli 8 ai 20 anni.
“Welcome in our homeland” è una delle prime cose che mi dicono. Mi emoziono.
La donna mi racconta della paura che provano ogni giorno le figlie per attraversare Qalandia e raggiungere l’università. “È così stressante, così tanto terrore”, mi dicono. “Non ce la sentiamo più di lasciare i nostri figli liberi di girovagare per la città -continua- Ci siamo adattati, anche se forse non sarà mai possibile abituarsi a tutto questo.” #wearewitnesses