Questo è l’ultima puntata di una serie di storie che raccontano di un viaggio, o meglio, della continuazione di un percorso iniziato un anno fa e che aspira a conoscere le sfumature di un paese, il Messico. Non solo spiagge e siti archeologici, quindi, ma nemmeno narcos e corruzione. Vi racconterò eterni viaggi in bus, di periferie di città, della Selva Lacandona, delle vite dei migranti che rischiano tutto per un sogno e molto altro.
di Camilla Camilli
“La Bestia è innocente. Le vere bestie sono quelli che ci viaggiano sopra. E litigano. E aggrediscono. E spingono di sotto altri migranti”. Potrebbero sembrare le parole di qualche cittadino che non ama la presenza dei migranti qui a Ixtepec, ma non è così. Sono le parole di Don Fabio, un’istituzione qui nell’albergue Hermanos en el Camino.
Quasi sessant’anni di cui gli ultimi quattro trascorsi qui nella casa per migranti e altri tre in Messico. Ha deciso si fermarsi qui perché ormai non gli è rimasto più nessuno della famiglia. Né nel Salvador né negli Stati Uniti. La moglie è morta molti anni fa e non ha figli.
Per i volontari è una sorta di nonno e per i migranti è una figura di riferimento, un saggio con cui passare le ore a conversare, che parla di rispetto e cura del luogo e di chi ci vive.
Qui è il responsabile del dormitorio degli uomini, ma molto più spesso lo si incontra fuori dall’edificio, mentre passeggia nei dintorni o quando si siede e inizia a raccontare qualche storia ascoltata o vissuta. Mi parla, ad esempio, dei suoi trentotto anni vissuti negli Stati Uniti, lavorando nelle maquilladoras di Los Angeles, fabbriche che riempiono il confine tra Messico e Stati Uniti e dove moltissimi messicani e immigrati centroamericani passano gran parte delle loro giornate, lavorando nell’assemblaggio di prodotti che poi verranno mandati altrove, mentre loro rimarranno bloccati in questi luoghi infernali.
Don Fabio mi parla anche di come abbia vissuto sulla propria pelle la nascita dello stereotipo del migrante-ladrone, a partire dagli anni Ottanta, come conseguenza dei primi furti e delle prime aggressioni. Lo stesso stereotipo che si è diffuso a Ixtepec, città sviluppatasi proprio grazie alle centinaia di migranti giunti fino a qui da tutto il mondo e che, insieme alla costruzione della linea ferroviaria, ha contribuito allo sviluppo commerciale della città.
Una convivenza pacifica tra centroamericani, tedeschi, inglesi, italiani, iracheni, giapponesi che hanno animato, insieme alle numerose comunità indigene della regione, il progresso economico di una regione. Uno stereotipo creato attorno alla figura del migrante a cui, purtroppo, ormai siamo abituati. Una costante richiesta di lavoratori da sfruttare e a cui destinare una misera paga, ripagati, molto spesso, con disprezzo e discriminazione. Tenuti alla larga dai centri delle nostre città, a riempire le periferie affinché i nostri occhi non vedano le conseguenze nefaste delle nostre scelte.
Anche l’albergue Hermanos en el Camino si trova nella periferia di Ixtepec. Ci si arriva camminando a lato della linea del treno, lasciandosi alle spalle il centro. Una città e un treno che respingono e, allo stesso tempo, attraggono le vite di centinaia di migranti.
La corruzione delle autorità e la cattiveria di alcuni cittadini continuano a convivere nello stesso luogo dove è sorto l’albergue, frutto del lavoro e dei sacrifici di chi non ha mai ceduto di un solo passo di fronte alle minacce e alle accuse infami. Primo fra tutti è stato padre Alejandro Solalinde, che giunto qui nel 2007 da una parrocchia vicina, ha dato vita a un esempio virtuoso di accoglienza e ha dato un luogo dove mangiare e dormire ai migranti, ai quali sempre era stato negato e che erano continuamente esposti alla cattiveria di chi non li voleva. Un puntino in una mappa, una sosta lungo la rotta, un porto sicuro in un mare in tempesta.
Solalinde, i volontari e gli stessi migranti ci hanno messo sudore, fatica e sangue per costruire questo luogo fregandosene di permessi e autorizzazioni per costruire, che tuttora la municipalità non vuole concedere. Ci hanno messo soprattutto amore e umanità.
Lo stesso amore che ho ritrovato nelle storie che in questi mesi ho ascoltato. Un amore sconfinato per la vita; la propria e quella delle famiglie che li aspettano da qualche parte nel mondo. Un amore cosi forte che spinge a partire, a mettersi in gioco e a mettere in gioco la propria sopravvivenza. Un viaggio in cui si corre molto e si aspetta altrettanto tempo, in cui incontri il male del mondo in una pistola puntata alla testa o in una cella di qualche casa abbandonata tra le montagne del Messico.
Ma incontri anche la speranza in chi non ha quasi niente ma che ti accoglie nella sua casa, condivide il poco che ha e ti protegge.
Don Fabio, il saggio, mi dice una cosa importante. Anzi fondamentale per chi si ritrova in queste situazioni. ‘Non farti carico del loro dolore. Non far entrare le loro sofferenze. Tu hai la tua vita fuori di qui. Non li puoi salvare tutti’.
Ma è tardi Don Fabio. Sono storie che ti entrano dentro, che ti lasciano una cicatrice. E te la lasciano sul cuore perché è con esso che ho vissuto questo mesi. Con cuore, lacrime, magone, sorrisi e abbracci.
Don Fabio ha ragione quando dice che non posso salvare le loro vite, che questo è solo un tempo, una pausa, prima di riprendere il cammino fuori da qui. Cosi come a Ixtepec si incrociano le linee del treno diretto a Nord, cosi si incrociano i cammini di centinaia di fratelli e sorelle migranti che hanno tanto da insegnarci.
E così riprendo anch’io il mio cammino fuori da qui con la consapevolezza e la speranza che saranno loro a salvare il mondo.