F(r)asi musicali del buio e della luce

Luigi Manfrin affronta la richiesta di un pezzo di musica
per l’International Holocaust Remembrance Day andando oltre la banalità del gesto commemorativo

Alessandro Macchia

Lo aspettavamo al varco, Luigi Manfrin. Attendevamo che si confrontasse con le finzioni del consorzio umano. La risposta alle nostre attese ha il valore ormai raro della coerenza e l’energia ancor più rara dello scossone emozionale. Di quanta forza d’animo abbia avuto bisogno ad accogliere favorevolmente la richiesta di un pezzo di musica per l’International Holocaust Remembrance Day, non osiamo immaginarlo, considerata la proverbiale riservatezza della persona e dell’artista: intendiamo il coraggio di scansare il narcisismo, già crudamente rilevato da Jacques Derrida, che incombe sul linguaggio del lutto. Del resto, non esistono vie di mezzo: bisogna scegliere fra la retorica dell’applauso conclusivo e il silenzio che solo consegna alla devozione e risveglia il perduto ahinoi! senso della pietas.

Optando per la soluzione più impegnativa, Manfrin ha fatto terra bruciata e dell’elegia di routine in onore delle vittime e della consolatio per i vivi: il genere commemorativo, vuol dirci, può avere un senso unicamente nei termini della memoria fatta azione.

Manfrin_LuigiÈ vero: B(l)ack Light… down inside the memory per pianoforte a quattro mani non è l’opera di un artista militante nel senso usuale del termine; pure, al di là delle pareti del laboratorio del compositore, c’è la trincea, altre violenze, altri olocausti. E il compositore, non insensibile, riconosce in quelli di oggi i rumori del passato, e si sente in obbligo di una proposta sostitutiva degli slogan più o meno usurati a favore della pace e dell’amore fra gli uomini. L’intellettuale torna in punta di piedi a parlare e a indicare una via. D’altro canto, l’argomento di Manfrin è relativo al “come” i genocidi del passato ci appartengano sul piano della sfera individuale. Ed è esattamente il sentimento di questa “proprietà individuale” che azzera o, meglio, demistifica l’effetto narcotizzante dei riti collettivi di condivisione del lutto.

La riattivazione del ricordo in quanto percezione presente e reale riconsegna all’utile ciò che era rimasto depositato nei recessi del superfluo.

Per questo stesso motivo, non v’è luogo per elementari evocazioni di brandelli o di fugaci epifanie, come forse ci aspetteremmo da un pezzo che rimodula in termini acustici i processi della psiche; viceversa, corrono idee che, in quanto scaturigini dell’inconscio, si definiscono, al livello delle figure ritmiche e della densità delle masse sonore, in una sferzante nettezza e incisività. I silenzi, pur nella variabilità estrema delle durate, anziché favorire la dispersione nel flusso dell’indifferenziato, rimodulano la materia in aggetto. B(l)ack Light… down inside the memory, come d’altronde tutta la musica di Manfrin, non concede spazio al nebuloso: il tratto, al contrario, è sempre ben marcato (e l’effetto del patafix sulla cordiera, lontano dall’essere usurato, contribuisce in maniera inquietante alla definizione delle geometrie interne), nei termini di una clartè di ascendenza propriamente francese: intendiamo dire di dinamiche sonore e di tracciati, non meno che di rapporti di tensione, di ascendenza chopiniana, se non altro (l’autore ce lo concederà!) nei termini dell’archetipo.

In maniera più manifesta e diretta la ricerca sullo spazio acustico sembra risentire della lezione dell’ultimo Debussy: nello specifico, di quel trittico di En blanc et noir con cui B(l)ack Light condivide, forse neanche troppo casualmente, la destinazione strumentale.

Cento anni precisi di distanza: altre guerre e altri lutti.

Ma con lo stesso interrogativo sulla possibilità di fare musica sul dolore in tempi di dolore: dissimmetrie intrinseche a morte e memoria, a strage e creazione, che Manfrin colma con prezioso senso di responsabilità etica e sulla base di un mezzo espressivo, il pianoforte puro e semplice, che non concede riverberi al pathos dell’oratoria funebre, con la consapevolezza, per dirla con Roland Barthes, che la morte rimane “l’indialettica”.

 

L’immagine in apertura è una foto di Dale C tratta da Flickr in CC.