C’è stato un tempo in cui la necessità di esplorare, di conoscere il mondo, rappresentava una priorità assoluta per i giovani europei.
di Nicolò Cesa
Era il tempo in cui Rue de Belleville, Karl-Marx-Allee (Stalin-Allee) e Nørrebrogade, come Plac Nowy, Skadarska e Taborstraße non erano state rinchiuse nella prigione delle foto a 360 gradi di Street View, ed aveva ancora senso immaginarsi il mondo. I consigli sugli itinerari venivano offerti dai personaggi dei romanzi di Musil, Nabokov e Joyce e dai film di Kieślowski, Wenders e Béla Tarr. Le compagnie aeree non avevano ancora scovato la ricetta magica per portare i passeggeri da Milano a Londra, o da Berlino a Madrid, al prezzo di una pizza ed una birra.
Nel 1972 avviene una rivoluzione in Europa: inizia il programma denominato Inter-Rail – limitato ai viaggiatori con meno di 21 anni – in 21 paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania Ovest, Grecia, Irlanda, Italia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera, Ungheria.
Da questo momento in poi è possibile attraversare i paesi del Vecchio Continente con un solo biglietto del treno, ad un prezzo alla portata di tutti. Una sorta di magia. I giovani sentono il bisogno di toccare con mano la Storia: raggiungere Berlino, ad esempio, vuol dire spingersi al confine del mondo-altro, per scovare coi propri occhi e con i propri sensi l’altro lato delle narrazioni occidentali. Both side of stories.
Muniti di zaino, mappa, tempo e curiosità (oltre che del libretto con gli orari dei treni di tutta Europa che veniva dato al momento dell’acquisto del pass) i giovani andavano alla scoperta di quell’Europa che iniziava ad assomigliare concretamente a quello che aveva sempre voluto essere, ovvero un continente unito nelle differenze. Un continente che sapeva onorare – ed applicare – quel bellissimo articolo presente nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ovvero l’articolo 13: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.”
Sono stato anche io parte di questa generazione senza tempo, di viaggiatori romantici innamorati delle cose inutili. E ricordo ancora l’eccitazione del primo Inter-Rail; quando innanzitutto ne scoprii l’esistenza attraverso un amico, che mi disse: “Lo sai che esiste un biglietto del treno con cui è possibile prendere tutti i treni d’Europa?”.
Avevo 17 anni, mi sembrava un sogno. Prendevo a malapena la metropolitana a Milano. Ricordo le emozioni: la preparazione, le ore sulla cartina ad immaginarmi la vita degli uomini e delle donne nella Mitteleuropa e poi la partenza, le ferrovie dell’ex Jugoslavia, la sensazione di non avere una meta e di accontentarsi della bellezza di ciò che sta in mezzo alle cose, tra una partenza ed un arrivo.
L’Europa aveva ancora un senso. Anche se l’Inter-Rail rimaneva un’esperienza tutto sommato ristretta e temporanea, ha certamente rappresentato – per diverse generazioni – il rito di passaggio verso l’età adulta. Si partiva dopo la maturità, con un bagaglio di sogni da ripassare in lavatrice, da stirare e da rattoppare e si tornava cambiati. Maturi per un certo senso.
Oggi l’Europa è il nemico comune. Per certi versi la responsabilità delle classi dirigenti europee è evidente ed incontestabile. L’Europa politica somiglia troppo a quello che gli intellettuali di Ventotene avevano paura che diventasse. Crescono i muri come certi fiori di campo in primavera.
E ci pensavo proprio l’atro giorno mentre leggevo dell’idea austriaca del muro al Brennero. Per me quella è stata la porta per l’Europa. In Inter-Rail, per uscire dall’Italia, si passava per Bressanone per poi raggiungere il confine austriaco, a circa 40 km. Oggi quella porta sta per essere murata, come si fa con certe case che smettono di essere abitabili e poco prima di essere abbattute.
Io sono come l’inquilino che da fuori guarda i lavori, con il cuore in esilio. Per quel valico sono transitati i sogni di intere generazioni di europei, ed i miei. Nei controlli notturni dei ferrovieri polacchi e cechi, nelle notti in ostello con gli inglesi scalzi e rissosi, nei musei di Copenaghen e di Berlino, l’Europa era – per un attimo – finalmente l’Europa. Almeno lo era per noi, che oggi invece non ci sentiamo più un po’ austriaci, un po’ danesi ed un po’ spagnoli.
Qualche mese fa Il magazine online Buzzfeed ha messo alla prova i lettori americani con un quiz di geografia sugli Stati d’Europa. Il risultato? Gli americani non conoscono il nostro continente e gli stati diventano: «La terra delle pellicce»; «la patria di Borat»; «destinazioni low-cost»; «ex comunisti», la Scandinavia viene definita «The Northlands», la Polonia viene confusa con l’Australia e il Portogallo si trasforma in «More Spain».
Tralasciando il discorso sugli americani dal punto di vista antropologico, fa specie che non si conosca la terra che fu di Chopin e di Liszt, di Verdi e di Mozart, di Machiavelli e di Weber, di Goethe e di Camus, di Fellini e di Hitchcock, di McCartney e di Freddie Mercury, di Leonardo e di Einstein. Ma noi europei, invece, la conosciamo l’Europa? Ci sentiamo europei? L’Europa è sulla bocca di tutti; è l’argomento preferito delle infinite chiacchierate nei kafana di Belgrado e nei kavana di Zagabria, è il cavallo di battaglia di certi movimenti politici, è l’argomento con cui inizia la chiacchierata con il mio parrucchiere (per il quale la moneta unica e l’Europa sarebbero la stessa cosa, ma questo è un altro discorso).
Che cosa sia in realtà l’Europa, specialmente oggi, non lo sa nessuno. Ma sento che i giovani non hanno più l’urgenza di conoscerla, di esplorare le immense distese di contraddizioni di cui è fatta – e siamo fatti – noi europei. I muri crescono da una notte all’altra ed il filo spinato blocca le speranze di chi abita la parte sbagliata del mondo. E noi inermi, indifferenti, fermi, incattiviti.
Mai come oggi dovremmo interessarci di Europa; mai come oggi avrebbe senso un viaggio a zonzo per il continente, senza un piano di viaggio, senza grosse pretese e senza fare la lista delle cose da fare: in treno, in macchina, in moto, in bicicletta o in aereo. Con qualsiasi mezzo. Per onorare quel diritto alla libertà di movimento di cui ci parla la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; un diritto che non sarà per sempre, nemmeno per i giovani dell’area Schengen.
Un viaggio per aprire degli spiragli nei muri di odio dentro i quali noi stessi ci siamo rifugiati. Siamo diventati quello che non volevamo essere: ci scagliamo contro i camerieri italiani e spagnoli a Londra, per una manciata di voti; accettiamo di proteggerci con il filo spinato e indossiamo gli abiti dei carnefici, pur di non fare lo sforzo della compassione, nei confronti dei più deboli. Siamo diventati brutti.
Eppure in Inter-Rail sembrava tutto diverso. In ogni città europea ci si sentiva a casa: c’era sempre qualcuno con cui parlare dei Beatles e delle strade di Milano, di calcio e degli errori dei nostri governi o un appartamento di Bielsko-Biała dal quale uscivano le note di una canzone italiana. In Inter-Rail pensavo fossimo più simili noi europei.
Certamente non basta un viaggio in treno per l’Europa a scongiurare la costruzione di nuove barriere per bloccare il passaggio di esseri umani, ma pensavo che forse è il caso di tornare ad interessarci di questa federazione monca, di questo sogno a metà; quantomeno per rispetto nei confronti di chi, quel confine, sognerebbe di oltrepassarlo senza grossi problemi. Noi possiamo farlo con pochi soldi ancora oggi (il biglietto Inter-Rail, ad esempio, costa circa 16 euro al giorno e permette di prendere tutti i treni d’Europa). Aldilà di quello che è de facto l’Unione Europea ed i suoi rappresentanti, degli errori commessi e di quello che sarà (se ancora ci sarà) in futuro. L’Europa, forse, è un’altra cosa. E merita di essere scoperta.