I documenti riservati pubblicati da Greenpeace svelano i conflitti di interesse fra Usa e Ue sul trattato. Ecco cosa contengono le 248 pagine rese pubbliche il 2 maggio
Di Clara Capelli
Li chiamano trattati di libero commercio, ma di libero e snello c’è veramente poco, tanto che i grandi pensatori che parlavano di laissez faire, laissez passer avrebbero molto da obiettare a riguardo. Anzi, quello che sta accadendo richiama piuttosto alle dispute commerciali del mercantilismo contro cui questi stessi intellettuali si ergevano. E sembra di tornare indietro di quattro-cinque secoli, quando ci si facevano guerre e alleanze per rubarsi quote di mercato a vicenda (o forse non ci siamo mai allontanati da lì, ma abbiamo solo smesso di fare finta).
Lunedì 2 maggio alle 11 Greenpeace ha sbattuto di nuovo all’attenzione del web le tante, tantissime criticità del TTIP, il trattato economico tra Stati Uniti e Unione Europea, attualmente in fase di negoziazione. Negoziazione segreta, perché entrambe le parti coinvolte si sono limitate sinora a pubblicare riassunti striminziti e schede esplicative dal contenuto assai generale e, cosa abbastanza grave e offensiva per i loro cittadini, unicamente concentrate sulle potenzialità vantaggiose dell’accordo e non sulle sue –inevitabili, perché non è il mondo delle favole né un manuale di economia mainstream– ricadute negative.
Greenpeace ha reso disponibili 248 pagine “riservate” dell’Unione Europea che rappresenterebbero circa due terzi della bozza del TTIP.
Si tratta di un quantitativo piuttosto importante e quindi – considerato anche lo stadio embrionale di molti di questi 16 testi – non semplicissimo da comprendere e interpretare. Lo prova anche il fatto che nelle ultime 24 ore la maggior parte degli articoli usciti su questa vicenda non siano scesi nei dettagli, ma abbiano piuttosto insistito sul fatto che grazie a questi documenti sia finalmente possibile comprendere le differenti linee negoziali di Stati Uniti e Unione Europea.
La diversità delle due agende risulta chiara anche a una lettura rapida e superficiale dei capitoli del TTIP disponibili, una diversità a sua volta figlia di storie e linguaggi politico-economici ben distinti. Mentre gli Stati Uniti puntano tendenzialmente a un trattato dall’approccio aggressivo che semplifichi e acceleri le procedure del business, l’Unione Europea mantiene una posizione marcatamente orientata alla regolamentazione e alla specificazione dei dettagli.
Queste differenze emergono soprattutto sulla parte dai contenuti più articolati e consolidati, ossia quella riguardante la liberalizzazione dei servizi, gli investimenti internazionali e la risoluzione delle dispute tra investitore e governo/parte committente. La parte commerciale – agricola e non – appare al contrario più lacunosa, evidente indizio di quanto i trattati di libero scambio altro non siano che il risultato di un compromesso minuzioso e difficoltoso fra interessi particolari.
Il documento più immediatamente comprensibile è l’ultimo (25 pagine), una sorta di riassunto delle posizioni negoziate durante il dodicesimo round di discussioni tenutesi a Bruxelles tra il 22 e il 26 febbraio 2016, con diverse sezioni su settori specifici (tessile, chimico-farmaceutico, automobilistico, degli alcolici, etc.).
Si vede assai facilmente come dietro la facciata dell’armonizzazione degli standard a fini liberali (perché vale la pena ricordare sempre che il commercio tra Stati Uniti e Unione Europea è già relativamente liberalizzato in termini di dazi doganali) entrambe le parti cerchino di guadagnare fette di mercato tutelando al tempo stesso i propri produttori (si spera anche la salute dei consumatori), un braccio di ferro che molto ricorda gli interessi mercantili che alimentarono le guerre commerciali del Seicento.
Il secondo pilastro del TTIP riguarda l’armonizzazione dei criteri e delle procedure di investimento tra le due parti, altro tema sui cui le campagne contro il trattato hanno insistito con determinazione. Il contenuto dei documenti pubblicati da Greenpeace sembra confermare come, nonostante le diversità sul tavolo delle trattative, l’accordo si proponga di facilitare in modo significativo l’operato di compagnie e investitori privati per permettere loro di agire su scala internazionale beneficiando della semplificazione garantita da procedure unificate. Si prevede inoltre di istituire un tribunale d’arbitraggio per la risoluzione delle dispute, misura già ora largamente utilizzata per gli investimenti internazionali, ma di solito disciplinata dai singoli contratti e non all’interno di un trattato tra due macroregioni.
Un settore d’investimento che pare stia generando parecchie tensioni è invece quello finanziario, con gli Stati Uniti determinati a non cedere agli standard e alla regolamentazione europea, assai più stringenti e caratterizzati da controlli più rigidi. Decisamente il genere di ostacoli cui Wall Street, già impegnata in una battaglia interna sui programmi delle primarie, si guarda molto bene dall’accettare.
In questo intricato braccio di ferro tra grandi e piccoli poli di potere economico, le grandi assenti sono la questione ambientale e quella del lavoro. Come sottolineato a Greenpeace con forte preoccupazione, la tutela dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico non sono menzionate da nessuna parte; si scrive solo di sfuggita e senza precisazioni che nessun progetto d’investimento dovrà costituire un pericolo per l’ambiente
Per quanto riguarda le problematiche di qualità dell’impiego e di creazione di occupazione, è sempre utile citare Luciano Gallino, il quale più volte ha denunciato come nell’Unione Europea la piena occupazione non fosse mai ribadita come fine ultimo del progetto europeo. Nei documenti disponibili sul TTIP si ritrova lo stesso approccio teorico: l’obiettivo dichiarato è invece lo sviluppo di commercio e business, cosa ribadita per altro in più punti, a rimarcarne l’importanza.
Ed è da qui che bisogna ripartire. Dall’interrogarci su che tipo di società vogliamo, negli Stati Uniti come nell’Unione Europea come nel mondo intero. Perché se la libertà di fare business è una priorità e il pieno impiego no c’è qualcosa che non va, specialmente se ci si ferma a guardare la situazione presente.
Se l’investitore deve essere messo in condizione di portare il suo capitale dove più gli conviene mentre da Idomeni a Calais muri e barriere sono sempre più accettati “perché non possiamo accogliere tutti”, allora il nostro pensiero è distorto.
Se attrarre l’investimento è una politica di sviluppo “tecnica” ma disciplinare il mercato del lavoro o prevedere disposizioni a tutela dell’ambiente sono misure arcaiche, sovversive, utopiche allora dobbiamo ripensare il nostro concetto di modernità e di possibile.
La rivelazione di questi documenti, come il caso dei Panama Papers, non ci racconta in fondo niente che non sapessimo già. Ma ci dovrebbe invitare a riflettere e a mobilitarci perché la discussione di questi trattati di libero scambio sia pubblica e condivisa, non lasciata a burocrati e “tecnici” che discutono a porte chiuse o ad attività di lobby dietro le quinte. Altrimenti non è progresso, è un regredire a secoli quando la politica era esclusivamente soggetta a interessi e capricci di pochi, magari pure in lotta uno contro l’altro.
Da qui bisogna ripartire, dal rivendicare un trattato che sia accessibile e che prenda in considerazione le molte perplessità espresse sinora dalla società civile, senza liquidarle come fastidiose e ideologiche lamentele che ritardano la macchina economica. D’altronde, come si è soliti ripetere, la modernità è pluralismo. Oppure no?
(Questo articolo rispecchia
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)