Il popolo dietro al Leicester City

Tra voglia di rivalsa, speculazione e una resistenza sotterranea e felice

di Marco Gottero, da Leicester

Il Leicester ha vinto, evviva il Leicester. Ieri, ore locali 22.00, al fischio finale di Chelsea-Tottenham, la favola si è realizzata. Una favola dai mille volti, dalle tante storie. Ma sopratutto che incarna nel migliore dei modi lo spirito di una città tanto poco conosciuta quando silenziosamente diversa.

Vivere a Leicester (pron. Les-tah), in questo momento storico, ha significato trovarsi inaspettatamente al centro del mondo, e avere quindi il lusso di poter fare osservazione partecipata di un fenomeno tanto
mitizzato quanto raro da realizzarsi: la rivalsa sociale. Anche se questa, nello specifico, è stata canalizzata nella modalità più innocua possibile: attraverso il tifo calcistico.

Questa piccola e pacifica città delle Midlands orientali, al centro della Gran Bretagna post-industriale, si è ritrovata catapultata nei titoli di cronaca di mezzo mondo per il successo impronosticabile del suo Leicester City, meglio conosciuti come “City”, “Foxes” o i blues, dal colore della loro divisa.

Non più tardi di un anno fa, le volpi lottavano a fondo classifica nel tentativo di non retrocedere in Championship, la seconda seriecalcistica inglese. Era una posizione che, storicamente, gli competeva.

Nei suoi 132 anni di storia il City non ha mai impressionato per risultati di vertice. Qualche coppa di lega e un tifoso d’eccezione – il magnifico attaccante inglese anni ’90 Gary Lineker, anche lui nato e cresciuto nelle midlands – era tutto ciò di cui il club si poteva vantare.

E invece oggi, dopo dieci mesi in cui gli aggettivi “inaspettato” e gli appellativi “sopresa del campionato” si sono tramutati gradualmente in “clamoroso” e “storia più incredibile del calcio mondiale”, eccoci qua: campioni d’Inghilterra, il più grande miracolo sportivo moderno si è finalmente compiuto.

L’altro ieri, al Counting House Pub, nella periferia sud della città, era assiepata una folla impressionante a tifare i blues nella difficilissima trasferta dell’Old Trafford, a casa del ben più noto Manchester United.

Distogliendo un attimo gli occhi dallo schermo, ci si ritrovava a osservare un mondo non poi troppo
variegato. La voglia di rivalsa, infatti, scorre forte tra le classi più povere della Gran Bretagna, dai junior doctors in sciopero contro le becere riforme del governo Cameron, ai tanti richiedenti asilo perseguitati dalla non meno terribile ministra Teresa May.

Da ovunque, nel mondo, sono arrivati attestati di stima e supporto al piccolo Leicester, e sembra che la
massa che sognava di spingere l’11 di Claudio Ranieri al primo titolo della loro storia abbia trovato un modo di sfogare calcisticamente tutta la rabbia e la repressione di anni di austerità, provando a negarla, a riscattarsi, anche solo per un attimo, tramite qualcuno che va a vincere per loro. In un mondo, quello calcistico, massima espressione dei poteri deboli che non hanno chance se non soccombere a quelli forti.

L’altro ieri, però, nella calca del pub, c’erano anche molti avvoltoi, che davano un’altra accezione al
significato sociale della probabile vittoria delle volpi. Molti giunti da Londra, altri apposta dall’Europa (di cui l’Inghilterra, neanche a parole, si sente parte). La loro voglia di vivere un momento storico coincideva con il più classico degli american dreams.

Non rivoluzione popolare, ma il singolo che, contro ogni avversità, ce la fa. Sfonda, vince, diventa milionario. Ecco come inglobare perfettamente il mito del successo contro ogni aspettativa nella più classica ideologia capitalista: se anche tu, singolo essere umano, ti farai strada schiacciando i tuoi simili, sfruttando a tuo favore ogni minima occasione, emergerai vittorioso dalla piramide di corpi. Eccoti lassù, tu, futuro Donald Trump.

Forse è troppa filosofia sprecata per una piccola storia di calcio, ma in fondo si trova anche qui il punto di rottura. Dove il grido “uniti ce la possiamo fare” si trasforma in un distacco, tra loro – perdenti eterni – ed io – vincente in pectore – che devo solo trovare l’occasione, il momento, la strada facile verso il riscatto personale, individuale ed unico. Una favola bugiarda alimentata da decenni di narrativa neoliberista.

Ed al pub erano già in molti a pensarlo. L’atmosfera, rispetto alle altre partite vissute in modo simpatico e collegiale durante tutto l’anno, stava mutando rapidamente. Appena c’è odor di vittoria, ecco arrivare gli speculatori, gli avvoltoi. Quelli che della vittoria si impossessano, se la attribuiscono e la rendono cosa privata. Ne fanno poi mito personale che alimenta la disgregazione sociale. Io c’ero, io ho vinto, voi no.

Eppure Leicester non è Londra, qui non si vive a due velocità – quella altissima della finanza della city, quella lentissima della metropolitana che ti sballotta dopo un turno eterno da McDonald. Leicester è sonnolenta, rilassante, qualcuno direbbe noiosa.

Dei suoi 300mila abitanti, più della metà sono non-native English, ovvero immigrati. Ci sono gli indiani che negli anni ’70 vivevano in Uganda quando Idi Amin li cacciò. Ci sono polacchi e pachistani che si contendono i marciapiedi della multiculturale Narborough Road per piazzare una bancarella di frutta fresca. Ci sono turchi e greci che, contro ogni aspettativa, scherzano insieme tra un gyros e un shawarma. E ci sono, come sempre, tantissimi italiani. Non expat, come gli piace definirsi, ma migranti economici, quali siamo.

Eppure tutto scorre, tranquillo, senza sobbalzi, in un piccolo mondo che potrebbe essere lo spauracchio di qualsiasi Salvini, l’incubo dei Le Pen, le trombe dell’apocalisse per i Farage. Leicester è una delle città più multiculturali in Europa, simbolo al contempo di una cultura in stupendo e perenne rimescolamento e dall’altra zeitgeist di un mondo in fuga, da ovunque, verso la grigia Inghilterra.

Perché a casa propria non c’è più speranza. Dalle bombe della Siria, dai 400 euro mensili degli stipendi
pubblici greci, dai miseri sussidi di disoccupazione italiani, tutti, da ovunque, ci si muove verso nord. Spesso malvolentieri.

L’Inghilterra non è un paradiso, ma per molti della nostra generazione è il meglio che ci possiamo
concedere. Per poter fare ricerca, per mettere finalmente a frutto le competenze in una professione.

Magari capitando nel momento storico perfetto, quello in cui sembra quasi che la rivalsa sociale arrivi
davvero. Per noi che in Italia non abbiamo mai avuto Occupy, che non siamo stati capaci di fare fronte
comune durante la crisi economica, eccoci tutti, maglia blu addosso, a tifare Leicester. Loro ce l’hanno fatta al posto nostro.

E con i suoi mille volte di migranti vestiti a festa di blu, la piccola Leicester ha un’altra lezione da insegnare. Ed è una lezione che arriva sottotraccia.

Nei mesi scorsi, le domeniche, non era raro andare al pub per guardare le foxes lottare, partita su partita, e costruire il loro mito quando tutti li ignoravano. E al ritorno dalla partita, puntualmente, si incrociavano i tifosi, quelli metodici e di vecchia data, che sciamavano lenti e silenziosi dallo stadio verso le loro case vittoriane a due piani, rigorosamente con la moquette.

Nel loro ritmo lento erano pacifici come questa città, sia che le volpi avessero vinto, sia che avessero perso o strappato un pareggio coi denti. Qualche commento a mezza voce, la sciarpa blu di nuovo rimessa a posto nel giaccone dopo che il vento freddo dell’Atlantico l’aveva tirata a sè, per la centesima volta. Loro, il popolo lento del Leicester City, non hanno mai sognato in grande. E ancora oggi perseverano.

Mentre ieri sera, a pochi minuti dalla festa, italiani caciarosi, avvoltoi dell’ultima ora e bolgia casuale si sgolavano a tifare una squadra che fino a poco fa non conoscevano, i tifosi storici se se stavano sorridenti in un angolo, con la loro birra in mano, a godersi la partitita come sempre, che è il Leicester, loro lo amano da generazioni, e poi si sta insieme, che così va la vita da queste parti.

E a ben guardare non è una lezione triste, anzi. Mentre oggi il Leicester evangelizza le masse in cerca di rivalsa, fino ad ieri era quotidianità, a velocità ridotta e senza grosse aspettative, eppure si faceva amare, come si fanno amare tutte le piccole squadre di calcio inglesi. Non per il successo, ma per il senso di appartenenza. Che, in una città così multiculturale, fa ancora più effetto.

Serge Latouche non aveva poi torto neanche in ambito calcistico: siamo capaci di andare avanti a crescita zero, di amare qualcosa che ci piace perché ci appartiene, non solo quando prevale sugli altri. E sottotracccia, forse, stiamo sviluppando quelli che Paolo Sylos Labini chiamava “anticorpi”.

Anticorpi ad una realtà in perenne superamento di se stessa, a difenderci contro l’iperconsumo e l’ultraproduzione. Forse stiamo dando linfa ad una corrente sotterranea, troppo a fondo per essere raggiunta dalle riforme della Troika, troppo privata – eppur collettiva – per essere manifesta, stiamo generando resistenza nascosta.

Questo insegnavano i tifosi del Leicester, non oggi nell’occhio del ciclone, ma fino ad ieri, quando nessuno li guardava risalire lenti a compatti, eppure felici e variegati, le strade controvento di questa piccola città della Midlands. O forse è solo una piccola grandiosa storia di calcio.